sabato 4 giugno 2011

Secondo il Gobbo


4 GIUGNO: L’esercito di Clark inondò Roma nelle prime ore del pomeriggio incontrando le prime folle festanti nelle periferie della via Prenestina, della via Casilina, della via Appia, e nelle borgate di Tor Pignattara e Centocelle, dove i fascisti e i tedeschi nelle ultime settimane non avevano osato più passare né di giorno né di notte per paura dei partigiani.


“La nostra è stata una "guerra di liberazione nazionale", la guerra di tutti gli italiani per la libertà e per la democrazia: furono i collaborazionisti dell'invasore che cercarono di trasformarla in guerra civile, ma ci riuscirono solo in parte perché la grande maggioranza degli italiani li respinse insieme ai loro protettori e padroni nazisti.” Rosario Bentivegna

Si narra che “il gobbo” da solo abbia in quel periodo giustiziato una cinquantina tra nazi e fasci, in alcuni casi armato solo di coltello

SECONDO IL GOBBO
Massimiliano Di Mino, Pier Paolo Di Mino


 Secondo il Gobbo, l’impresa non era poi così impossibile: quando hai capito il punto debole del tuo nemico, gli aveva detto, non hai più nemmeno bisogno di combattere.
   - Sì, ma perché ti dovrei aiutare? - gli chiese Anzalone.
   - Per i soldi, fascio.
 E così, ora, Ruggero Anzalone camminava lento appresso al Gobbo, coperto alle spalle solo dal buio della notte.
   Il rischio c’era, ma la posta in gioco valeva la pena. Per chi sa giocare, ovvio. E lui, Ruggero Anzalone, che era rimasto in piedi fino ad ora da gran paraculo quale modestamente era, poteva pure vantarsi che non era l’ultimo a sapere come cavarsela. Il mondo è dei furbi e dei violenti. Ed era questo che lui aveva imparato ad essere. Mica ci aveva colpa. Nessuno ce l’aveva: a tutti ci piacerebbe essere buoni, ma la vita è così che va. Pure il Duce, anima santa, con tutta la buona volontà, le ore fatali e gli spaccheremo le reni, le marce e l’adunate, i gerarchi che saltano nel cerchio infuocato, le camice e i teschi, gli audace e gli avventuroso, i balilla e la gioventù italiana, mica aveva potuto fare degli italiani veramente un popolo di guerrieri e di sudditi onesti. Gli italiani hanno imparato a fare le torture nelle sezioni della polizia politica, questo sì, e anche bene; e ad arrangiarsi con truffe, spiate e infamate. Quelli più bravi ci hanno fatto i soldoni con il millantato credito littorio, che è meglio dell’olio di ricino quando si tratta di ungere per fare scivolare le bustarelle gonfie di baiocchi. Basta vedere il carrierone di Pietro Kock: figlio di spia tedesca, truffatore e poliziotto, che oggi ti difende il fascismo dall’eversione partigiana in una sala d’albergo, coi cavi elettrici, i frustini e le vergini di Norimberga. In ricompensa, si fa la bella vita a donne, sciampagna e cocaina, tutto vestito elegante come un paino che pare un attore del cinematografo e, intanto, ha pure un foglio di via in tasca, per quando ci sarà la mala parata: sopra ci è scritto a lettere cubitali che di nascosto è sempre stato comunista e che faceva la manfrina per salvare i compagni. È così che ci hanno cresciuto: altro che eroi e sudditi perfetti. E poi che sudditi! Pure il re, alla prima occasione, visto come buttava, non ha aspettato nemmeno che capissimo cosa fosse questo armistizio, che ha preso e dato ai tedeschi tutto l’oro della Banca d’Italia, l’oro degli italiani, e allo scoccare del nove settembre, non un minuto di più, se ne è fuggito via con la sua carrozza dorata da imperatore. Se l’è scappata come una lepre a godersi la vita da qualche altra parte: e chi si è visto si è visto! Lo sanno tutti a Roma, qui nella città aperta. Aperta a tutti i figli di mignotta che vogliono spolparsela viva. E vedremo, alla fine della fiera, chi è il migliore.
    Il migliore, alla fine, è chi ha più soldi, e il Gobbo, quindi, gli stava parlando dell’unico argomento valido.
   Lo aveva guardato con quella sua faccia da bravo ragazzo, e con gli occhi allegri come sono allegri gli occhi di uno cattivo cagato troppo in fretta dalla madre, e gli aveva sventolato sotto il naso un bigliettone della Banca di Stato che profumava di fresco e di buono, ché ancora non aveva avuto tempo di peccare.
    - Stasera ce ne staranno tanti altri, al magazzino di Porta Furba. -  gli aveva detto il Gobbo. - Tu hai capito che roba è?
    Anzalone gli fece segno di no, anche se una qualche idea gli era pure venuta in mente. Le voci girano che è una bellezza, pure perché, solo a fare qualche ragionamento fatto come si deve, l’oro d’Italia, l’oro di noi altri italiani, da qualche parte doveva pure stare inguattato.
    E infatti, il Gobbo se ne usciva ora con questa storia.
    - E’ l’oro della Banca d’Italia. Stasera, i nazisti lo mettono a sedere nel magazzino.
    - E tu come lo sai, Gobbo?
    - Senti bene, coso: ieri il mondo era di Mussolini, domani sarà di qualcun altro. Per rimanere in piedi non c’è da andare troppo per il sottile. Pensaci, il più forte, alla fine, potrei pure essere io… E magari c’è pure chi la pensa come me e mi dà un mano.
    - E che vorresti da me?
    - Io so dove i crucchi stasera metteranno l’oro, e vuoi che non sappia chi ha le chiavi del magazzino?
    - E proprio perché io c’ho le chiavi… io dell’oro non ne so niente.
    - Ma il Gobbo, sì… le chiacchiere stanno a zero, coso…
    - E anche se fosse, pensi che i tedeschi si fanno fregare così?
     - Sì, lo penso. E se mi segui, ti do anche una lezione su come si usano i punti deboli del nemico.
    - E a parte questa lezione, che ci guadagnerei?
    -  Facciamo un affare da pari a pari!
    Il Gobbo pure era un gran paraculo. Tutti si chiedevano se era un bandito, un ladro, un partigiano. Sottigliezze. Domande senza senso. Anzalone, però, certi dubbi non se li faceva. Anzalone sapeva riconoscere al volo le persone. Il Gobbo era un ragazzo venuto su come tutti: padre ignoto e madre del mestiere. Bisognerebbe essere santi per essere cresciuti, in questa fogna di paese, belli e  onesti. Onesto è uguale ad essere morto. E il Gobbo aveva la pellaccia: aveva brigato coi compagni; aveva messo su un tesoro con le rapine, che la gente ne parlava come di una meraviglia. Un tesoro, pare, nascosto nelle caverne di Roma, come nelle favole; e, ora, c’era qualcuno che diceva pure che se la faceva con certe panceforti del vecchio regime che andavano dicendo che quando tutto è perduto, niente è perduto. Alla fine si sarebbe fatto all’italiana: si sarebbe cambiato tutto per non cambiare niente. Insomma, il Gobbo era un infame. Come tutti. E sapeva cavarsela.
   Ma se pensava di farla ad Anzalone, allora, qui cascava male: ci avrebbe pensato Anzalone a rigirare, al momento giusto, tutto a proprio favore.  
    L’affare sembrava  averlo pensato proprio bene, pulito e semplice: Anzalone avrebbe dovuto fare entrare il Gobbo e la sua banda nel magazzino. I tedeschi, diceva, mica si aspettavano un’impresa del genere. Li avrebbero sterminati, e poi avrebbero diviso il bottino.
   - Vedrai, fascio, che diventiamo amici per la pelle. Mi sa perfino che quando vinceremo ti farò passare per un eroe.
   - Magari toccherà a me fare il contrario.
   - Vedo che ci capiamo.
   Il Gobbo sarà stato pure sveglio, ma era solo un ragazzino. E il mondo non è dei ragazzini, ma dei furbi e dei violenti patentati ed esperti, come lui, come Ruggero Anzalone. Il fatto è che si davano due possibilità: o il Gobbo ce la faceva a fregare i tedeschi, e allora Anzalone intascava il bottino; o non ce la faceva, e il solito Anzalone, sul più bello poteva tirare un colpo in testa al Gobbo e fare l’eroe di fronte ai crucchi, con il ritorno niente male di intascare la taglia. A conti fatti, dunque, il rischio c’era, e le incognite erano pure troppe. Ma ce l’avrebbe fatta, tranquillo e beato. Era pur sempre Ruggero Anzolone, mica un coglione.
    Bisogna saper vincere, Gobbo.

Il Gobbo, ora, gli camminava dietro, con quella faccia da pigliapelculo. Giocava a fare lo spavaldo, come un ragazzino con la cacca al culo. Si era messo a fischiettare chissà che canzone per far vedere che a lui non gliene fregava niente.
    -  Dovresti fare meno rumore.
    - Paura, Fascio?
    Arrivarono al magazzino. Anzalone tirò fuori le chiavi e cominciò ad armeggiare finché il portone di ferro non si aprì. Lo spalancò, spingendolo con tutta la forza. Quel coso pesava da fare scoppiare una vena in petto a un toro. Il Gobbo se ne stava a guardare, perché lui sarebbe stramazzato a fare la metà dello sforzo. Per forza, pensò Anzalone, con quel cuore piccolo e duro, stretto fra la gola e il culo, che si ritrovava! Avrebbe potuto ammazzarlo con uno schiaffo.
     - Muoviamoci, che aspetti? - fece Anzalone.
    Il Gobbo gli fece una mezza smorfia da matto, si sfilò da sotto il cappotto una mitraglietta di fabbrica tedesca, ed entrò nel magazzino. Dentro era tutto buio. Anzalone non lo vedeva più. Poi lo sentì fare un fischio.
    - Guida tu! - gli disse il Gobbo.
    E allora Anzalone si fece coraggio (perché era inutile nasconderselo, l’affare era ghiotto, ma qui non c’era da fidarsi di nessuno); insomma cercò di farsi coraggio, e si incamminò, seguito dal Gobbo, attraverso un corridoio.
   Ancora una porta di ferro, più piccola. Poi un’altra porta, ancora più piccola, e, alla fine, sbucarono in un stanzone tanto enorme che non se ne vedeva la fine.
   - Siamo arrivati. - bisbigliò Anzalone.
   Nel magazzino, tutto al buio, si sentiva, in mezzo alla puzza di cibo lasciato a marcire, il profumo del piombo. Qui c’era la santabarbara dei tedeschi. Al Gobbo pareva di vederla pure al buio: esplosivi, mitraglie e pistole con file di munizioni da restituire intero il creato al mittente: la manna dal cielo. Il Gobbo fece un altro fischio, e a quel punto Anzalone sentì dei passi fare rumore nel magazzino, e i portoni che venivano fatti sbattere con forza.
    - Calmo, sono i miei. C’è un solaio, o qualcosa del genere, dove nasconderci?
    Anzalone gli fece strada. Per qualche minuto dentro il magazzino fu tutto un chiasso: i ragazzi si nascondevano come trovavano un buco: dietro i pilastri, fra i sacchi, sulle impalcature.
    Anzalone lo portò su una specie di loggetta di ferro, e il Gobbo disse che era il posto che ci voleva, e che ora si trattava solo di stare zitti e aspettare.
    - Se ti scappa di fare qualcosa per la paura, falla puzzolente ma non rumorosa. - gli disse.
    Ridi, ridi pure, Gobbo: quel cuoricino da storpio te lo strappo dal petto e te lo mangio a morsi: comunque finisce.
    La banda, giù, continuavano a fare un gran casino. Il Gobbo accese un cerino. Stava leggendo un orologio. Poi si mise a contare sulle labbra: uno, due, tre, quattro, cinque.
    - E ora silenzio. - sussurrò.
    Fu come se, lì sotto, quelli della banda lo avessero sentito: il magazzino ora sembrava vuoto.
    Anzalone impugnò nella tasca la pistola: al primo avviso di intoppo, ciao Gobbo.  
    Un minuto, due minuti, tre minuti: un’eternità. Poi tutto prese la rincorsa: i portoni che venivano di nuovo aperti. Passi di stivale nel corridoio. Qualcuno che urlava ordini in tedesco, o qualcosa del genere snell, teufel, mist. Risate. Urla. E poi la luce si accese, e Anzalone vide, giù nel magazzino, cinque ragazzetti tedeschi, mezzi ubriachi, che trascinavano una cassa in mezzo agli scaffali della santabarbara. E poi cominciò subito la mitragliata fitta, con il Gobbo appeso alla ringhiera come una scimmia che urlava e sparava, e i suoi uomini che sparavano come addannati e, alla fine del fuoco, i ragazzetti tedeschi erano polvere buona solo per la propria sepoltura.
    Anzalone cominciò a scendere le scale. Era andato tutto come previsto, giusto? I tedeschi erano entrati con la cassa piena di oro italiano e, presi alla sprovvista, erano stati sterminati. Va bene, non aveva sperato che andasse bene fino a questo punto, ma si vede che l’Anzalone, oltre che paraculo era pure fortunato. Mioddio, ma quanti soldi potevano essere?!
    Anzalone, con il cuore gonfio che non ci capiva più nulla, si precipitò nel magazzino, e si chinò sulla cassa.
    - Sta qui l’oro? - si era messo a gridare.
    - Quanta fretta, fascio. Ti ho detto che prima ti davo la lezione sul punto debole del nemico…
    E fu a quel punto: Anzalone  guardò il Gobbo con una faccia che non sapevi dove finiva lo stupore e dove cominciava il terrore.
     - Il tuo, per esempio, sono i soldi. - gli disse il Gobbo, che gli mostrò la canna di una pistola e gli fece un buco tondo in mezzo agli occhi.
   I ragazzi della banda fecero un applauso, e poi cominciarono a caricarsi tutte le armi dei crucchi. Il Gobbo scansò il corpo del fascista. Aprì la cassa. Dentro c’era qualche bella bottiglia di vino.
    - Vieni un po’. - gridò il Gobbo a uno dei suoi ragazzi. - Prendi pure questa, che stasera brindiamo alla libertà.
 

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