giovedì 9 giugno 2011

IL PICCOLO MICHAUX #1

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EDITORIALE

CI VORREBBE UNA LETTERATURA POPOLARE



Ci vorrebbe una letteratura popolare: ma chiunque potrebbe obiettare che, prima, bisognerebbe inventarsi un popolo.
   L’obiezione sembrerebbe valida, perché, in effetti, è evidente, che, oggi più che mai, nessuno di noi si sognerebbe di sentirsi uno del popolo: questo, di fatto, perché viviamo piuttosto nella  condizione di pubblico.
   Non è fuori da ogni congettura operare validamente questa distinzione fra popolo e pubblico.
   Gli individui che si riconoscono in un popolo tendono ad aderire a un racconto collettivo, ampio e instabile come si addice a una certa religione istintiva e profonda della civiltà. Insomma, il loro essere persone sociali, ossia uomini, passa necessariamente attraverso una sofisticata e naturale elaborazione culturale, viva in un dialogo costante con gli altri, e che ha ampio corso in una tradizione.
   Un pubblico, diversamente, non ha bisogno di nessuna tradizione, di nessun dialogo, di nessuna elaborazione culturale, né sofisticata né naturale. Il pubblico ha bisogno di una teologia che si riduca, in maniera sostanzialmente stabile, al dogma del consumo e dello sfogo di sentimenti e opinioni. Sentimenti ed opinioni che vanno, in un gioco di sponda fra determinismo e caso, di volta in volta gestiti e imposti. La figura preposta a questo servizio, largamente inteso nelle sue diverse applicazioni tecniche, è una sorta di addetto stampa, di pubblicista, che ha sostituito la figura del narratore, del poeta, del musicista, dell’artista, e via declinando. Insomma, un tecnico esperto di mode, gusti, share. È un mestiere questo, che pur nello squallore del suo monotono commercio quotidiano, mantiene gli aspetti di una vivace messa in opera della creatività: intercettare i gusti è, di fatto, un aspetto minoritario (quasi uno scacco) del più importante lavoro di crearli e imporli.
   Lo sviluppo di questa creatività, e dei mezzi per dispiegarla (i potenti mezzi di corruzione delle coscienze libere contro i quali ci avvertiva Sandro Pertini) è, del resto, il reale oggetto della nostra storia sociale e politica. E affonda in radici relativamente lontane.
   Una figura di questo genere; la riduzione della poesia a pubblicità, della letteratura e dell’arte a pubblicistica; insomma, del popolo a pubblico, non sarebbe, infatti, pensabile prima dell’ascesa della borghesia. Per arrivare dal dialogo platonico all’intervista sul quotidiano, è stato necessario instaurare una visione della realtà ascetica e concretistica in cui ogni cosa può e deve essere ricondotta molto meno alla sua idea che al suo costo. La letteratura, mettiamo con un Daniel Defoe (un bel caso di psicopatologia: morto giurando, in nome della realtà dei fatti e della deontologia giornalistica, che Robinson Crusoe era esistito realmente), diventa la descrizione della realtà così come piace a dei committenti che sulla realtà concreta, e sul suo sfruttamento, hanno fondato il loro successo. Defoe scrive per un pubblico: aderisce a una nascente teologia. La natura di questa teologia la indovina molto più in là Stevenson, in America, dove, pur di non aderirvi, rifiuta grossi compensi in denaro dagli editori. Ma Stevenson, appunto, è un narratore popolare, come  Dostoevskij o Conrad: muovono grandi storie, e le muovono per masse concettuali, sintattiche; sforzano figure e parole a beneficio dell’immaginazione dei loro lettori. Un lavoro differente da chi deve soddisfare l’esigenza di un pubblico che, non so, ha l’esigenza di conoscere come vivono i poveri (e troviamo uno Zola che ci ha spiegato che vivono così male da diventare, talvolta, cattivi); o come si stava nelle altre epoche (la caterva di romanzi storici scritti da pornografi della documentazione e costumisti falliti); o che ha l’esigenza di sentirsi migliore e più arcano (e vai con i decadenti e i simbolisti); più buono (Tolstoj lo hanno inventato per questa bisogna). Lo scrittore ora serve a fornire trame, cronache, ideologie: manuali per ogni evenienza. E qui in Italia, dove si fa sempre avanguardia, troviamo un De Amicis che ci erudisce sul fatto che il suo mestiere (così scriveva a Treves) consiste nello spremere il cuore ai giovani italiani: a quei giovani italiani che, educati alla solidarietà fra classi sulle pagine di Cuore, avrebbero dato vita al fascismo. Ed è sempre in Italia che, con sdegnosa reazione a D’Annunzio, che restaurava una lingua antica per farla diventare una moderna lingua di popolo, che un Gozzano dichiarava obsoleta la poesia, e, quindi, i futuristi si davano a intonare i rumori della nascente modernità, del suo totalitarismo. Il poeta e il narratore non servono più: abbiamo lo scrittore (uno che scrive), un addetto alla diffusione dei gusti e delle idee in un mercato ben sezionato, in cui il pubblico può trovare i più disparati oggetti per la soddisfazione della sua esigenza di essere pubblico. Oggi come oggi, per fare un esempio: dai romanzi rosa di un Moccia (per chi ha bisogno di scoprire i veri sentimenti) al chiacchiericcio post-mistico di un Milo De Angelis (per chi deve accordare la propria intelligenza a certo bon ton da upper class).
   Detto questo, allora, si potrebbe dire che ci vorrebbe una letteratura popolare, proprio per avere un popolo; per potersi riconoscere in una collettività civile; per possedere una tradizione e una cultura attraverso la quale diventare individui liberi e coscienti. Parliamo di popolo, sia chiaro, solo in questo senso, come una collettività di individui; un dialogo costante fra uomini: qualcuno potrebbe indovinarvi la suggestione di coniugare Platone e la democrazia. E sia.
   Detto questo, procediamo.
   Ora, se per fare un popolo, ci vuole una letteratura popolare, quest’ultima ha la necessità evidente di essere eseguita da narratori e poeti popolari. O meglio: da poeti punto e basta. Da qualcuno che si adoperi in un’azione essenziale, quale è appunto la poesia.
   Abbiamo bisogno di qualcosa che smetta di distarci, che ci riporti vigili alle nostre vite: abbiamo bisogno di essere nutriti nella nostra immaginazione per acquistare il peso appropriato, necessario a mettere i piedi ben piantati a terra. Abbiamo bisogno, tipo, dei dialoghi ben pettinati di Platone, di cui tutta la nostra civiltà è una chiosa: poesia, essenziale per scoprire che, malgrado ogni nostro possibile accumulo, siamo poveri, e questa povertà è il gran bene che ci stimola alla filosofia. Abbiamo bisogno di tutte le grandi storie capaci di guidarci nella vita con coraggio: da Omero a Virgilio. E delle storie in cui agiscono le grandi iniziazioni ai manifesti segreti della vita: da Apuleio a Dante, fino a Melville. Abbiamo bisogno, nel tramestio dei nostri fantasiosi affanni quotidiani congegnati apposta per un lettino psicanalitico, di scoprire di nuovo che la vita è un racconto, e non saperla raccontare porta alla morte: per questo ci servono le Mille e una notte, Boccaccio e Potocki. Ci servono Conrad, Stevenson, Dostoevskij, la Morante, Morselli, Bolaño, Ferrandino, ma, finiamola qui con i cataloghi: ci serve qualcosa di grande.
   Immagino che questo qualcosa si prepari.
   Magari molti, stanchi del tran tran coscienzioso dei reading; delle scommesse imprecazioni speranze rancori da Premio Strega; dello zelo impiegatizio speso sui rendiconti delle vendite e i messaggi di google alert; delle presentazioncine nel posto adeguato; dei salottini del madonnavrolescarpebuone; della scalata al successo su facebook; di questa pena quotidiana per i cinque minuti di successo, cara buona cosa di cattivo gusto; magari tantissimi, questo qualcosa di grande già lo preparano.

Pier Paolo Di Mino
 
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 BIBLIOTECA ESSENZIALE


Luca Moretti
Il senso del Piombo
Castelvecchi
P. 128
Euro 12,50


Si sa che Platone non ha mai scritto quello che pensava. Era qualcosa di troppo prezioso (quindi risibile per gli altri) che poteva solo affidare, con la propria viva voce, agli amici cari e ai discepoli prediletti. Eppure ha usato la scrittura, e anche congegnandola a perfezione; lo ha fatto intrecciando il mito con il pensiero. In realtà, dal momento che anche il pensiero ha, per lui, una struttura mitologica, si potrebbe dire che Platone ha solo scritto mito, e che è uno dei più grandi poeti epici di tutti i tempi. Platone scriveva consegnando agli uomini, a un suo sogno utopico di popolo, i miti necessari a pensare; a vivere liberamente filosofando. Questo è il senso più puro del mito. E questo è anche Il senso del piombo di Luca Moretti.
    Io, che, del resto, non lo sono in senso proprio, qui meno che mai posso svolgere funzione di critico. Con Moretti ci unisce una fratellanza umana e professionale (nel senso di professione di fede) che mi permette, piuttosto che analizzare e discettare, di rievocare l’incantesimo di un lavoro che condividiamo: fare agire miti. E nel senso, appunto, platonico.
   Posso rievocare un lavoro fitto e profondo (della profondità che porta alla saggezza) che ha immerso l’autore in una trama storica e documentaria vischiosa, pericolosa. Per capire le ragioni di una storia, di una storia nera e tragica, bisogna usare non solo i piedi di piombo, ma un’intera attrezzatura da palombaro: da qui la cura maniacale sui documenti, per ricostruire i fatti, gli ideali e le speranze, comunque li si voglia giudicare, di una parte della gioventù che, alla fine deglii anni Settanta, si scagliò contro il sistema capitalistico e borghese applicando una strategia terroristica: la parte nera: quella degli eversivi fascisti. Conoscere dall’interno, come vissute, le dinamiche di quelle azioni (le stragi di piazza; gli omicidi; gli attentati; le rapine; gli incontri clandestini; le discussioni politiche; l’organizzazione militare) ha imposto a Moretti di seguire l’azione dei suoi personaggi giorno per giorno, cronaca dopo cronaca. Ma per raccontare di Giusva Fioravanti e dei Nar era anche necessario conoscere l’intricata suggestione dei loro moventi, e di qui un nuovo sprofondamento: quello nell’etica e nei miti fascisti; nelle parole di Evola e Freda; nei dibattiti sul primo fascismo, sulla Repubblica Sociale, sul fascismo democratico, sul milazzismo, e sulla guerra senza frontiere alla borghesia. Ed infine arriviamo all’esito di questa macchina tragica, che nel nostro paese prende i contorni, sempre, della trama occulta. E così Moretti ha dovuto mettere le mani tra le leve sottili della tecnica, della pragmatica ontologica di cui il potere si serve per alimentare se stesso. L’Italia è un paese fondato sul caos sistemico, su un gioco caligoliano finalizzato a determinare e sfruttare l’anomalo, la confusione, la forza rivoluzionaria di qualsiasi segno per mantenere immutato se stesso.
   Questo minuzioso lavoro, voglio rivelare, non è servito semplicemente a una particolareggiata ricostruzione storica. La calata negli abissi di Moretti è valsa, prima di tutto, a resuscitare e a fare agire un mito: quello della ribellione pura e incondizionata. Un mito che, coscientemente o meno, riviviamo sulle pagine de Il senso del piombo in prima istanza per virtù della struttura linguistica del racconto. Bisogna fare come Platone, pettinare bene le parole. Ed è quello che fa Moretti che inventa una prosa impetuosa, una sintassi precipitosa che scavalca sempre se stessa e i propri nessi logici: una prosodia incalzante, da canto di guerra. Ed è di guerra che parliamo, infatti: quella primordiale, insita nella struttura del cosmo. La guerra che è bella e che i giovani vogliono vivere in prima linea per dare fuoco a tutto e non lasciare dietro di sé più niente. La guerra all’odore disinfettato di napalm. La guerra per mangiare rancio e praticare distruzione; la guerra per fuggire all’orrore del quotidiano e vivere in un attimo l’eternità insieme ai propri compagni: la guerra che combatte il giovane eterno. La guerra bellissima che ha cantato Omero, raccontando di Achille, della sua giovinezza furiosa che si ribella contro il potere anchilosato, la vecchiezza ottusa di Agamennone,  ed è capace di mandare a morte il suo popolo e infine morire egli stesso, cercando con disperazione la morte, aggrappato a menzogne che si è inventato da solo: morire per la gloria, per il proprio amico: morire, in realtà, per sfuggire all’orrore di una pace, che è noia, è gioco di potere, è vecchiaia ottusa, è morte dello spirito.
   La guerra è come la racconta Omero: bella e orribile. La guerra contro tutto e tutti della gioventù che si scaglia è come la racconta Moretti che, con i trucchi incantati della sua arte di narratore fa esalare una volta per tutte, con i suoi fumi, il senso del piombo.


Pier Paolo Di Mino



Roberto Arlt,
Il giocattolo rabbioso,
Le Mani,
L. 18.000




Nell’aprile del 1999 riscaldavo panini sulla piastra e cuocevo hamburger al microonde in un locale nel centro di Roma. La mia ragazza annusava l’aria, quando tornavo a casa alle tre di notte, e mi diceva sempre di farmi una doccia. Era il mio secondo anno a Roma. Lavoravo per studiare e studiavo per lavorare. A giugno il barman si licenziò. L’uomo che gestiva i turni, quello che ti chiamava alle 5 di notte per avvisarti che probabilmente ti avrebbero licenziato il giorno dopo, quello che ti sorrideva quando entravi in quel posto, e che subito dopo ti elencava tutti i difetti del tuo servizio, quello che ti sussurrava paroline dolci a fine turno, quando c’era da lavare il pavimento, quell’uomo era lo stesso che cercava di darti meno del dovuto, anche solo duemila lire bastavano a farlo stare meglio. Quell’uomo era argentino, e a giugno mi promosse a barman. Un giorno, mentre cercavo di preparare un vodka martini, mi chiese. Tu scrivi, vero?
Hai letto Cortàzar? Hai letto Puig? Hai letto Borges?
Sì, risposi.
Siete tutti uguali, mi disse.
Chi?, risposi.
Voi, disse l’argentino, e se ne andò alla cassa, a fare lo scontrino a un tizio che comprava ogni giorno sei litri di latte.

Così una notte tornai a casa con questo nome impresso sulla lingua, come quando ti imponi di ricordare qualcosa e ripeti a te stesso quella cosa, e mentre la ripeti la cosa scivola e cambia, diventa altro. Con Arlt non andò in questo modo. Quella notte non andai a letto. La mia ragazza dormì da sola. Il mio accappatoio rimase asciutto.
Con il sonno che mi asciugava gli occhi, verso le 11 del mattino scrissi questa recensione:
Fiorenzo Toso ha tradotto questo tango linguistico, questa lingua fatta di idiomi, italianismi, dialettismi, varietà del linguaggio creolizzante dette cocoliche di varia natura (ad es. napoletana, genovese, jiddish, etc...).
Il luogo è la Buenos Aires del '900, abitata e lavorata dagli immigrati europei che come Arlt, nato nell'aprile del 1900, s'arrabattano con furti, baratti, attività d'ogni genere, nella scenografia di una città mostruosa, gigantesca, caotica, una fumosa e caldeggiante napoletania, dove il protagonista, Silvio Drodman Astier, inciampa nella
sua storia. Il filo di un'epopea marcia, di un ragazzo che esce a piccoli passi dall'arte del furto, s'avvicina al lavoro regolare, subisce, viene colpito, molestato, cascato si rialza, prosegue e ancora cade.
La vita di Buenos Aires fotte chi non fotte, e comunque strugge. C'è l'aria degli intellettuali-cascamorti del culto parigino, c'è la lingua strappata e bevuta a sorsi, c'è la menzogna, il raggiro, il tradimento degli amici, lo sguardo lucido sulla fine dell'altro. Arlt ha l'ha spiegato così: «ci sono momenti nella vita in cui proviamo il bisogno di essere canaglie, di sporcarci fino in fondo, di commettere qualche infamia, di distruggere per sempre la vita di un uomo, e dopo averlo fatto potremo tornare a camminare tranquilli».
Il libro esce nel 1926, ed è subito ressa e giudizio sullo stile gergale, la parola che è racconto senza essere labirinto, curata come lo sono i corpi di Ciprì e Maresco.
Criticato ma letto senza posa, Arlt ha lasciato al suo presente l'anti-romanzo di formazione, fuori dal salotto, infilato nella strada.

Quel giorno mi licenziarono.

Marco Lupo




Roberto Bolaño
Tra parentesi
Adelphi
p. 379
euro 29,00


La letteratura è una malattia. Scrivere è una malattia. Non si parla dello scrittore maledetto, del martirio, dell’ascetismo o altri metodi per arrivare in cielo, ma più semplicemente di un destino o un demonio che puoi o meno seguire, o al contrario decidere di combattere o raggirare (mettendo su per esempio una tua casa editrice); le lettere, prendendo forma e forza con ogni nuovo libercolo, non si accontentano di tracciare una via, ma tracciano le esistenze, le incidono come solo può fare una grande gioia, un dolore, qualcosa a cui non avevi mai pensato o alla quale non sai dare una spiegazione. Vale così per un amore come per una dittatura. Un altro modo per ingannarsi e credersi in grado di cavalcare questo serpente fatto di carta e raccontare le tue scorribande, i tuoi compagni d’avventura e il tuo atteggiamento verso la vita. Tra Parentesi è un compendio (ma potrebbe benissimo essere una valigia di cartone), dove si possono tirare fuori saggi, recensioni, racconti autobiografici e trucchi per trasformare la nostalgia più pura in oro letterario.
Tra parentesi è anche, come ci suggerisce nella prefazione il curatore Ignacio Echevarrìa, una sorta di autobiografia frammentata e se lo scrittore Riccardo Piglia (uno dei migliori autori latino-americani alle prese però con un delirio per gangster e malavitosi, secondo Bolaño) afferma che la critica è la forma moderna di autobiografia, bisogna anche leggere che Roberto Bolaño non amava le autobiografie, così come la scrittura da giardino, quella letteratura solipsista, tanto in voga in Europa. Bolaño non aveva nulla di personale contro le autobiografie purché chi le scriva abbia un pene in erezione lungo trenta centimetri. Tra parentesi è un lungo, comunque troppo breve, viaggio nella poetica di uno scrittore, nei suoi valori che divengono meta letterari. Attraverso una raccolta poco omogenea di pensieri, critica e metafore possiamo immergerci nelle sue credenze come nelle sue passioni e nelle antipatie: poche, a dire il vero, perché Roberto Bolaño era un buono incapace di odio, perché l’odio, se non perdura, non è odio. L’autore, in fin dei conti, sembra rispettare e amare proprio tutti con l’unica condizione di avere coraggio, di sapere affondare senza reticenze la testa nel buio. In questi testi Bolaño rivela molte dei suoi gusti, nonché delle influenze letterarie: Borges su tutti, Philip K. Dick, una specie di Kafka passato attraverso l’acido lisergico e la rabbia; Nicanor Parra, cantore delle sfide inutili e necessarie; Rodolf Wilcock, scrittore leggendario, e ancora i suoi amici Rodrigo Fresan e il sempre celebrato Mario Santiago, e molti molti altri che insieme disegnano una mappatura della letteratura del secolo appena passato e diventano un complemento imprescindibile per rileggere l’intera opera del cileno.
La letteratura è una malattia e Tra parentesi è l’autobiografia di uno scrittore morto, ma scrive Bolaño “ […] La letteratura, a differenza della morte, vive all’aria aperta, senza riparo, estranea ai governi e alle leggi, tranne che alla legge della letteratura che solo i migliori fra i migliori sanno infrangere. E allora non c’è più letteratura, ma esempio.  E questo mi strappa un sorriso, è amaro, ma è sempre un inizio.

Massimiliano Di Mino


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SANTI, EROI E SCRITTORI

GESU’
Eroe, santo e scrittore ebraico. Noto come il cristo in una letteratura a lui successiva che lo colloca in seno ad una tradizione di aspettazione messianica e di escatologia storica tipica del giudaismo. Questa letteratura ne amplia la figura, iscrivendola contemporaneamente nel filone greco dei semidei, dei figli di dio e degli dei che muoiono e rinascono. Ancora, gli vengono attribuite facoltà miracolose desunte da quell’agiografia filosofica che, partendo da Pitagora, e passando per Simon Mago, arrivano fino ad Apollonio di Tiana. Del resto, è improbabile ricavare dalle sue biografie notizie storiche certe. Parrebbe essere figlio di tale Maria e di tale Giuseppe, secondo le diverse tradizioni semplice falegname o iniziato esseno. Alcune fonti (Celso) riportano che la paternità di Giuseppe fosse puramente putativa, e che il vero padre di Gesù fosse tale Pantera, centurione romano, noto con questo nomignolo per la sua ferocia. Sicuri riscontri filologici, archeologici e storici, comunque, ci permettono di sapere in maniera certa che svolse le sue attività sotto l’impero di Tiberio. I vangeli lo descrivono come un pensatore scandaloso circondato e sostenuto da discepoli in gran parte di sesso femminile, il quale, a causa delle sue idee, ha subito un martirio infamante. Dal momento che nessuno costruirebbe un mito su elementi così poco decorosi, si può fidare dell’esattezza storica di quanto riportano questi scritti. Da essi, valutandolo prima di tutto dalle sue conseguenze, si desume facilmente il pensiero di Gesù, che altro non si presenta che come uno sfondamento a sinistra di quello di Platone. Gesù cerca una grande spiegazione al cosmo e al ruolo che l’uomo ha in esso. Pensa a un grande ordine, dunque, ma, abbandonando il filosofo ateniese, specula su una realtà circostanziata: l’uomo non riesce a costruire questo ordine, cioè non arriva ad essere virtuoso e non può praticare tale ordine attraverso le leggi. Con mossa geniale, Gesù inverte il problema e definisce non più l’uomo come non virtuoso perché non segue le leggi, ma l’uomo non virtuoso perché esistono le leggi. Senza le leggi, nessun peccato. Gesù abolisce le leggi. Alcune persone che alle leggi dovevano il loro successo (il Sinedrio; gli occupanti romani) gli rispondono in maniera non meno circostanziata e paradossale della sua: lo condannano a morte. Applicano la giustizia per praticare l’ingiustizia e, così facendo, entrano nello scacco gnoseologico del pensatore ebraico, costringendosi a quel realismo paradossale e vivificante che Gesù inaugura, e con cui tutta la tradizione letteraria a lui successiva è costretta a misurarsi.  Fa parte di questo suo speciale realismo, in cui la realtà è liberata dai proprio limiti, lo sviluppo delle possibilità offerte all’uomo (e a Gesù per primo) di essere insieme un semplice uomo (figlio dell’uomo), un dio (figlio di dio; la resurrezione, etc) santo (parlare con gli animali; curare i mali; resuscitare) e un eroe (“vengo a portare la spada”). Pur non avendo mai, in ossequio alla tradizione socratico-platonico, scritto in prima persona, è possibile godere il suo dettato letterario in un gran numero di racconti: si consiglia soprattutto la lettura di quei capolavori insuperati e insuperabili di realismo magico raccolti sotto la definizione di “Vangeli sinottici”.

Pier Paolo Di Mino 











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