Il Libretto Rosso di Garibaldi | ||||
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“Il Libretto Rosso di Garibaldi. Discorsi, scritti e proclami dell’uomo che inventò l’Italia sognando una Patria Socialista”, è un insolito saggio tra letteratura e storia che ci porta a riscoprire il mito di Giuseppe Garibaldi, l’uomo che, come suggerisce il sottotitolo, inventò 150 anni fa l’Italia. Il libro, curato da Massimiliano e Pier Paolo Di Mino, esce in occasione dell’anniversario dell’Unità nazionale e raccoglie gli scritti e i proclami politici dell’eroe dei due mondi. Già autori del romanzo “Fiume di tenebra” sull’epopea dannunziana a Fiume, i fratelli Di Mino proseguono con il “Libretto Rosso” un percorso ideale alla riscoperta dell’epica nazionale. Gli autori ci parlano dell’eredità lasciataci dai protagonisti del Risorgimento e ridisegnano la figura dell’Unificatore, in una chiave moderna e originale, presentandocelo come uomo, pensatore e combattente, ma soprattutto riproponendocelo come un mito ancora oggi attuale e quanto mai necessario. ___________________ INTERVISTA A MASSIMILIANO E PIER PAOLO DI MINO Il “Libretto rosso di Garibaldi” è un ritratto fra letterario e storico di Garibaldi. Perché è importante oggi parlare dell’Eroe dei due mondi?Perché, appunto è un eroe. Oggi ci hanno imposto l’obsolescenza dei miti: non ne abbiamo più bisogno perché tutto quello ci serve deve limitarsi al produrre e al comprare. E a questa nuova fede, che corrisponde a coscienziosi e razionalistici (ragionieristici) miti mercantilisti, che si opponeva in sostanza (per fare un solo nome) Mishima, quando riscopriva il mito del samurai e si dava la morte per affermare il valore della vita. Oggi, poi, il problema sembra essersi aggravato. La nostra prosa quotidiana non è più quella che addolorava Mishima. Non si tratta solo di essere ridotti a una condizione di lavoratori e consumatori coatti, a cui è a malapena concesso il diritto di passare il tempo libero nell’attesa di un cancro. Nell’Italia della Lega, e ancora di più nell’Italia decisa dagli sceneggiatori di Banfi e De Sica, si sconta una mediocrità quotidiana che non solo è sconfortante, ma anche pecoreccia.Ci hanno tolto le vecchie storie che ci mettevano in guardia dagli eccessi egotici degli eroi, da Achille con le sue schiere di ubbidienti mirmidoni pronti al massacro, o da Beowulf che manda a marcire tutto il regno pur di dimostrare il suo valore. Senza il mito, senza la profilassi di queste storie siamo tutti esposti all’infantilismo capriccioso e ridicolo, che a malapena la psicanalisi a vita contiene, e che ha permesso ad un’intera collettività di deresponsabilizzarsi come cittadini e persone sociali. Oggi ci manca Odisseo, il re contadino che torna a casa e, con il porcaio Eumeo, un giovane figlio e una moglie abbandonati, caccia gli usurpatori e pratica giustizia e libertà. Oswald Splengler affermava che la civiltà sarà salvata da un plotone di soldati: è vero, ma quello che probabilmente non considerava è che questo plotone è sempre composto dalla gente più strampalata. Eppure la notizia bella è che un eroe di questa portata noi lo abbiamo avuto in carne e ossa, vestito in maniera stravagante, con i suoi soldati piumati in testa, e un moro dotato di lancia amazzonica sempre al suo fianco. Un eroe che ha praticato giustizia e libertà. Si chiamava Giuseppe Garibaldi: l’unico eroe, assicura il Comandante Ernesto Che Guevara, di cui il mondo ha sentito veramente il bisogno. Eppure l’Italia fatta da Garibaldi sembra a molti, e non solo oggi, una delusione.Lo stesso Garibaldi dovette subire questa delusione, quando si arrese all’evidenza che la rivoluzione che aveva guidato non realizzava nessuno dei suoi sogni politici e spirituali. Ma questa Italia deludente è appunto fondata sull’interessata rimozione di un Risorgimento che, guidato dal Generale, fu una rivoluzione. Un sogno rivoluzionario che ha impegnato le intelligenze più vive e la migliore gioventù di diverse generazioni di italiani. L’Italia sembra fondata sulla rimozione e lo stravolgimento di Garibaldi. È stato un lungo e proficuo lavoro di fantasia storiografica quello che ha permesso di svuotare e deformare un mito in progresso, cioè capace di agire nella storia e nella quotidianità di un intero collettivo nazionale. Ridotta l’Italia a un’espressione geografica sotto il marchio della monarchia sabauda, i Savoia trasformano nella coscienza popolare Garibaldi ora in un bandito, un sovversivo fra i più pericolosi, un campione dell'illegalismo; ora in un vago eroe da rappresentazione paesana. Oggi l’opera viene completata con una sorta di dannatio memoriae: la sua figura si riduce a qualcosa fra il macchiettistico e il truce. Così Garibaldi può essere creduto un ridicolo avventuriero e un soldato privo di pensiero, se non proprio lo scemo del villaggio descritto da Ermanno Cavazzoni. Uno scemo a cui, però, non è dispiaciuto rubare e ammazzare, come dimostrerebbe il fatto che portava i capelli lunghi, sotto i quali nascondeva astutamente la mancanza di un orecchio, che in Sudamerica gli avrebbero tagliato come ladro di cavalli. Nell’ultimo secolo è divenuto perfino millantatore, perché non avrebbe mai combattuto davvero: la spedizione dei mille, per dirne una sola, era pagata insieme dai Savoia, dagli inglesi, da tutta la massoneria e da chissà quante altre entità che non vollero mancare all’occasione. Infine non gli è mancato di fare anche il negriero nel mare della Cina. Tutto questo è utile a nascondere che il Risorgimento fu un sollevamento di massa e, ancora di più, un grande sogno. Claudio Magris, tempo fa, facendo alcune considerazioni sulla mancata nascita dell’Italia, ragionava sulla rimozione e riduzione a retorica parruccona di tutto il grande movimento patriottico e democratico del Risorgimento che culmina con l’impresa fiumana di D’Annunzio. E insisteva su come il non aver tratto alimento mitico ed epico dalla nostra storia, ci ha portato a non averne una, e, quindi, a non esistere come collettività nella vita concreta e quotidiana. Per noi è stato importante, seppure con mezzi diversi, parlare sia di Fiume che di Garibaldi esattamente per questo motivo. Quindi dopo Fiume di Tenebra, questo libro fa parte di un vostro percorso letterario ideale. In che modo?Ogni scrittore si sostenta con una fantasia: che un avverbio sia capace di aiutare i suoi lettori a cambiare la percezione della realtà. È una fantasia nutriente. Ed è irresistibile pensare che la nostra collettività nazionale possa essere invogliata a percepirsi non più come il confuso assembramento di individui sfarzosi e superstiziosi, cinici e sentimentali, antropologicamente destinati all’inganno, al mestiere del barattiere, al delitto politico. L’Italia sarà forse tutto questo, ma è anche la terra della Città del sole, della Repubblica mistica di Arnaldo da Brescia, di fra Dolcino, Dante e San Francesco. Di Garibaldi. Riappropriarsi di questo diverso racconto, potrebbe dare agli italiani un diverso senso del proprio destino comune. Qual è il ritratto di Garibaldi che esce fuori dal vostro libro?Il ritratto di un uomo che ha combattuto senza risparmiarsi per un ideale. Un uomo che ha fatto molti sbagli, che è caduto mille volte ma ha sempre cercato di andare oltre il proprio limite umano: che ha rispettato, insomma, il motto che Dante mette in bocca ad Odisseo. Se questo lo ha portato all’inferno, del resto, Garibaldi era disposto (come ha dichiarato) ad allearsi con il diavolo, se utile a un bene maggiore. Questo perfino nel suo pensiero, scarno e contorto insieme, ma sicuramente non dottrinario, e che può essere sintetizzato in un’essenziale aspirazione alla libertà e alla giustizia. Era un brigante onesto e un combattente per la libertà. In conclusione, perché leggere questo libro? Per regalarsi un po’ di utopia quotidiana. |
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