"Fiume di Tenebra" di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
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“Fiume di tenebra. L’ultimo volo di Gabriele D’Annunzio” è un romanzo di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino pubblicato dalla Castelvecchi. È un racconto tragico e lirico, a tratti visionario, che ricostruisce un episodio dell’epopea dannunziana di Fiume, ossia il tentato omicidio del poeta da parte di un ignoto gruppo cospiratorio intenzionato a mettere fine in questo modo all’esperienza di Fiume. È il romanzo disperato e struggente di quattro cavalieri, uniti dal vincolo dell’amicizia, che si sono riuniti attorno al Vate per difendere fino all’ultimo il suo ribelle sogno poetico. Perché un romanzo su Gabriele D’annunzio? Perché D’Annunzio è il vero uomo moderno, o, quanto meno, la modernità cerca di raggiungerlo da tempo. E non è nemmeno tanto importante dire che, nella decadenza della cultura italiana successiva al Rinascimento, D’annunzio, insieme a Gian Battista Marino e Pirandello, sia uno dei pochi poeti italiani di rilevanza europea. La sua dote poetica, una dote affine al misterioso invasamento, trova significanza soprattutto nel suo diventare vita. D’Annunzio è un poeta inimitabile perché lo è la sua vita. E viceversa. Non è un caso che il santo protettore della gioventù Kerouac lo adorasse. Era un imbroglione e un mistico, un eroe e un cafone, un decadente e un selvaggio. Possedeva per dare, e dava per avere. E conosceva un segreto pagano: il fato è irragionevole, ed essere ragionevoli ci mette contro il fato. È un eroe dadaista. Così come l’impresa di Fiume è un’azione dadaista (e in quanto tale fu salutata dal Club Dada di Berlino con una lettera a firma di Baader e Grosz). Fiume rappresenta la perfetta indifferenzazione fra sogno e realtà praticata da D’Annunzio. Un sogno e una realtà che aspettano ancora di essere rivissuti. Giusto. I fatti sono raccontati dall’interno, da chi l’ha vissuti e presto fatti divenire un racconto, una costruzione mitologica. In effetti, è certo che l’impresa fiumana è un fatto storico come è certo che questo non è un romanzo storico. Diciamo che la ricostruzione degli avvenimenti, puntuale e scrupolosa al punto da poter essere raccontati con una partecipazione emotiva soggettiva, ci ha fornito la materia per poter raccontare una storia che, pur essendo avvenuta in un certo momento storico, avviene anche e di più in ogni momento della nostra vita. La scelta di ambientare questa tragedia archetipica a Fiume è stata certamente dettata, in prima istanza, da un motivo: trovare nella storia nazionale un momento culminante della nostra vicenda collettiva. Claudio Magris, tempo fa, facendo alcune considerazioni sulla mancata nascita dell’Italia, ragionava sulla rimozione e riduzione a retorica parruccona di tutto il grande movimento patriottico e democratico del Risorgimento. Magris insisteva su come il non aver tratto alimento mitico ed epico dalla nostra storia, ci ha portato a non averne una, e, quindi, a non esistere come collettività nella vita concreta e quotidiana. Ma basterebbe ancora pensare al Risorgimento senza eroi di Gobetti. Il nostro è un lavoro di narrazione popolare e quindi l’aspirazione a rivolgerci a un pubblico che possa identificarsi nella cultura e nella storia italiana ci ha spinto a questa scelta. La motivazione più profonda è, però, un’altra: Fiume è per noi, come la Ilio omerica, un fatto avvenuto, una conflagrazione astronomica (come nella lettura dell’Iliade di Giorgio de Santillana) e il teatro tragico dove si giocano i fondamentali caratteri e destini umani. La Repubblica Romana, la disfatta dell’esercito spagnolo nelle paludi caraibiche, Lepanto sarebbero teatri altrettanto validi per dare spazio alla narrazione di un'altra apocalisse quale abbiamo voluto raccontare. I protagonisti di “Fiume di tenebra” potrebbero ricordare degli eroi cavallereschi. Avete cercato di riscrivere i quattro moschettieri in versione tragica? Probabilmente sì. Quattro moschettieri calati in una realtà estrema, in una apocalisse radicale. Il primo conflitto mondiale viene chiamato la Grande Guerra, perché è la guerra per antonomasia, quella in cui, nella sua orribile bellezza, la guerra si è manifestata con più perentorio clamore. Il fascino che porta sempre gli uomini a combattere una guerra, e sempre contro il proprio interesse, è un incantamento che nasce nello stato delirante in cui conduciamo le nostre vite in pace. Bisognerebbe, al proposito, rileggere con costanza “Compagnia K” di March. Ci portano a combattere sedati dalla retorica della vita come lotta per sopravvivere, della giungla in cui lottare per vincere. Poi, in guerra, si scopre che si lotta per non morire. E spesso per non fare morire. Molti lo hanno scoperto in quella guerra, e lo scoprono a Fiume i nostri eroi, Keller, Giuliano, Comisso, Serra. Combattono non per affermare una retorica ideologica, ma per difendere un ideale concreto di vita, la loro Città di Vita. Serra è il nostro personaggio emblematico, un soldato perfetto, una macchina da assassinio, che, subita l’adeguata iniziazione, diventa un uomo. Lottando per gli altri uomini. Prendendosi cura della loro vita. Il protagonista è un uomo diviso fra il proprio dovere e il sentimento dell’amicizia. Ha una missione, uccidere D’Annunzio, ma il vincolo affettivo con Keller lo spinge da un’altra parte. “Fiume di Tenebra” è un romanzo sull’amicizia? La nostra storia racconta un conflitto che, molto classicamente, agisce tra i poli del dovere e dell’amore. Questo fa molto teatro. Forse anche la struttura del racconto, che si muove per scene, risente un po’ della drammaturgia classica. L’aspirazione sarebbe, in fondo, che il lettore, chiuso il libro, si faccia un bel pianto liberatorio. Conrad c’è per diversi motivi. Prima di tutto perché ha portato alla ribalta le tensioni e i caratteri fondamentali che avrebbero agito nella storia occidentale dalla fine dell’Ottocento più o meno fino ai nostri giorni. Caratteri che, nella loro grandiosa ambiguità, deflagrano perfettamente nella vicenda fiumana. Diciamo che in Conrad abbiamo trovato la sostanziale materia storica. Inoltre Conrad è nume tutelare per le aspirazioni con cui facciamo questo mestiere: intrattenimento. Intrattenimento, e non distrazione. Un intrattenimento che speriamo sia di natura implicitamente filosofica, intesa socraticamente come amore per il sapere, per quello di cui sappiamo: il nostro succo, la nostra anima. Ci piace immaginare che ogni nostro racconto, come quelli di Conrad, siano un momento di irresistibile e spassosa rivelazione su se stessi. Insieme a Conrad dovremmo denunciare debiti di ammirazione almeno per Stevenson, Melville e Maugham. Ogni singolo autore, rappresentando, più che se stesso, i propri lettori e i propri personaggi, è già collettivo. Moltiplicando il tutto, in due diventa una festa. da: http://www.ecotv.it/index.php/rubriche/consigli-per-gli-acquisti/3399-qfiume-di-tenebraq-di-massimiliano-e-pier-paolo-di-mino |
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