giovedì 9 giugno 2011

IL PICCOLO MICHAUX #3


LA CRICCA 33 ALLA FIERA DEL LIBRO DI TORINO

EDITORIALE

SALTO - DEADLY COMBINATION




#1 Il viaggio così come è andato veramente, almeno secondo Pier Paolo Di Mino

Del resto non andare al Salone di Torino, con lo struscio in mezzo ai banchi, il chiacchiericcio da bar sport in salsa aulica, la festa di Minimum Fax, e tutte quelle strette di mano fra bella gente, è come non vedere il Festival di Sanremo: astrarsi dai piaceri delle vecchie casalinghe a cui non sono più rimasti nemmeno i rammarichi è un tirarsi fuori dalla mischia comunque pericoloso. E poi la bellezza non è mai gratuita, e, anzi, va estratta con fatica, magari trovandola nell’insolito. So di certo, per esempio, che perfino a Torino, durante la celebrazione del santo giubileo del libro, può capitare di assistere allo spettacolo vero, che parla al cuore e che emoziona: prima di partire, leggo di un critico che, alcuni anni fa, si è preso una sbronza, ha tentato il Po’, e, così battezzato, ha preso di petto tutti gli uomini in parrucca della cultura italiana che si erano dati appuntamento (è una specie di Kunda Mela) per il rituale delle strette di mano. I pazzi per dio, gli jurodivyj, si possono ancora incontrare. E poi c’è il viaggio. Per il viaggio qualsiasi meta è volgare. Anzi il viaggio si completa meglio con una destinazione qualsiasi. Ce lo farà capire bene, del resto, il nostro navigatore satellitare. Ci siamo dati appuntamento alle tre del mattino, e ci presentiamo tutti, con bizzarra astuzia, sobri e puntuali. Stipiamo i pochi bagagli in auto, e procediamo dritti, seguendo la voce femminile del navigatore. Si chiama Irina. È dolce, ma non arrendevole. A un certo punto si mostra perfino audace. Comincia a fornire indicazioni, increspando il suo stile asciutto con commenti dotati di un certo acume psicologico: la sentiamo dire, riferendosi chiaramente a noi, “spostati”. Cerchiamo di ignorarla, ma ribadirà il concetto suggerendo, all’improvviso, un’indicazione stradale alla quale poche persone avrebbero avuto il coraggio di ubbidire con la nostra stessa prontezza: ci ritroviamo per tre volte di seguito a girare attorno al casello di Scandicci, come solo degli spostati potrebbero fare. Ma la felice menomazione sciamanica, comunque, non ci deve esimere dal compito: il Salone di Torino va fatto. E poi, comunque, gli scrittori sono da tutte le parti. Non gli scrittori nel senso di Dante, o di Borges: insomma quelli che uno da piccolo si immagina che debba incontrare nei giardini del Faubourg e ti parlano di cose grandiose, che ti simulano l’eternità come niente e ti scassano il cuore e vi tirano fuori quello che manco sapevi che c’era. Gli scrittori nel senso di quelli che scrivono, che sono alfabetizzati e, quindi, scrivono; che con la disoccupazione e la flessibilità hanno tempo libero, e, quindi, scrivono; che hanno un posto ministeriale, e, quindi, niente da fare se non scrivere. Quelli che spediscono all’editore il loro romanzo che mette fine alla storia della letteratura accompagnandolo con una lettera in cui è scritto chiaro che se gli rubi il capolavoro ha già pronto l’avvocato. Quelli che se trovano il numero dell’editore gli telefonano due volte al giorno, perché un autore non va tenuto in sospeso così (“che facciamo? Arrestiamo la cultura!”). Quelli che non hanno successo perché stanno oltre; quelli che è tutto un complotto ai loro danni. Quelli che si riuniscono in centocinquanta perché non capiscono, e c’è l’urgenza etica: siamo nati ricchi e colti, la scienza ce l’abbiamo praticamente infusa, intervenga lo Stato a imporre al popolo bue i nostri libri. Tutti quelli che hanno, non importa se in un cassetto o sui banchi di una libreria, un romanzo che le leggi di natura, la fisiologia umana, permettono di scrivere ma non di leggere. Non si scappa: il tuo vicino di casa potrebbe essere uno scrittore. Come ha dimostrato Bolaño, quando in un paese non funziona più il Parlamento, prosperano i corsi di scrittura creativa. Quindi, tanto vale Torino, che bellissima ci accoglie a mezzogiorno piena di sole e di bandiere italiane.



Marco Lupo, invece, rimane a Roma per vedere com’è senza scrittori

Forse un dipsomane sta a un lettore come un grafomane sta a un bambino. Non lo so. Cerco un merlo che mi canti una canzone, ma Roma è triste, i passerotti in sciopero della fame, i bambini escono da scuola sfogliando gli Essais, i senegalesi preparano i fagotti per andare a Torino: partiranno all’alba, arriveranno dopo pranzo, digiuni, assetati, saranno puntuali alla conferenza intitolata “L’integrazione nella letteratura comparativa mentre il Corno d’Africa muore”.
Gli scrittori hanno salutato le donne delle pulizie, li ho visti sbatacchiare i palmi dai loro attici fantasma; gli scrittori hanno ritirato le camicie in lavanderia, hanno telefonato ai critici, si sono assicurati di comparire con una copia del loro libro nell’inserto culturale che uscirà dopo la Fiera. I critici hanno chiamato i ristoranti, i ristoratori hanno riservato i tavoli per i critici, i camerieri che scrivono sono stati avvisati, che nessuno avvicini un critico, che nessuno nasconda il manoscritto sotto la camicia.
Così a Roma, per tre giorni, mancheranno i conclavi, i petti gonfi, gli spocchiosi, gli squassapennacchi, gli iconografici, i dispensatori di morale, i narratori che scambiano i ghiribizzi per storie. A Torino, invece, i camerieri suderanno sui manoscritti. In qualche cucina, mentre uno chef con i baffi decora piatti belli ma brutti, un senegalese immaginerà tutta la storia del suo romanzo. Sappiatelo.



 


Il Salone visto da Massimiliano Di Mino 
(o anche: paura e disgusto a Torino)

Il mondo è fatto per finire in un bel libro, recita così la scritta della borsa più gettonata alla fiera. La gente la mostra, la riempie, se ne compiace. Non so qual è lo stand che regala tanto al chilo questa paranoia: leggi bene e camperai cent’anni, e (se c’hai culo!) finirai in qualche riga per la quale la gente passeggerà come zombi in questo girone! Anche tu finirai nel popolo eletto!
Forse sono solo io che vedo in questo una grossa iattura, ma c’è da dire che, se il mondo finirà nel gran libro, questo sarà composto di capitoli e di piccoli paragrafi.
Partiamo giovedì notte, il percorso è molto lungo, ma decidiamo con i compagni di viaggio che dormire sarebbe troppo poco ardito, meglio sciogliere l’attesa con qualche birra, tanto più che non toccherà a noi guidare. Partire è un poco morire, anche questa è una iattura non da poco, ma l’ho sempre fatta mia. Ho una paura tremenda dell’automobile e nove ore di autostrada sono un fottio e, solo a volerlo, hai realmente tutto il tempo per rivedere la tua vita, magari riflessa nel finestrino. Inoltre la colazione dell’autogrill, appena rigettata, aiuta queste pratiche divine. Oppure potrei rompere questo incantesimo addormentandomi per un po’, ma sono troppo curioso di vederla in volto questa morte che ora so di certo immanente. Viaggia in grossi mostri: tir, betoniere, pullman che, sembra, siamo costretti ad indispettire, superandoli. Quando acceleriamo troppo, il navigatore emette un suono che ricorda la macchina che segna il battito cardiaco. Scopro anche tante altre cose, tipo che, con il terrore, non solo il corpo si irrigidisce ma emana anche calore. Informazioni utili, che potrebbero finire in un libro di scienza.
Una volta arrivati a Torino mi arrendo alla certezza che anche questa volta l’ho sfangata, ma c’è sempre il viaggio di ritorno. Ma se ho convinto me stesso è più difficile con gli altri. Stai bene? Hai una faccia!, mi dicono, sei morto eh?, chiedono sorridendomi. Forse, farei bene a confessarglielo. Non credo che uno sorrida facilmente alla morte, ma mi è sempre venuto facile suggestionarmi. Diciamo che è un dono che ho sempre avuto, come quelli che riescono a parlare al contrario. Ci nasci, sono fortune. Dunque è fatta: sono morto, quindi eterno, quindi mitico. Meglio così, il programma della giornata è niente male: pranzo frugale innaffiato da tanto vino che rimette il sangue nelle vene, prendere possesso della stanza in ostello, rapido struscio in fiera e doppia presentazione. Non è certo una doccia che mi rimette al mondo, ma in fiera vedo tante facce come la mia, di quelle che partimmo in mille per la stessa guerra, e poi al Lingotto è come in autostrada, si procede in fila nel girone, ogni tanto si sorpassa e qualcuno, che hai incrociato in qualche presentazione o autogrill, ti saluta e clacsona alle spalle: quanto tempo!, come stai?, c’hai una faccia! Ci risiamo, penso. Già detto, già sentito tutto. Forse si muore più per noia che causa incidenti stradali! Poi, tra gli stand, un volto familiare, di uno che di sicuro studia da opinion leader. Mi fa notare che i libri che si vendono di più sono quelli sui vampiri, sugli zombie: su quelli morti. Da lì, fulminea, giunge l’illuminazione: io sono un best seller!


Pier Paolo Di Mino, però, al Gabrio incontra Buddha

Potrebbe sempre succedere che in mezzo al Salone uno abbia una rivelazione, o, come dice la gente educata, un satori. Magari mi compare davanti Buddha, io lì per lì lo scambio per Bondi, ma lui mi dice, no no, sono proprio Buddha e tutt’al più sono io che scambio te per Bondi, stai al posto tuo. Farsi prendere a bastonate nell’io. Non è facile qui al Salone una cosa del genere, perché all’entrata c’è un impiegato che te lo gonfia, l’io, con un’apposita macchinetta, che poi sembriamo tutti dei Bondi convinti di essere Buddha. La Fiera funziona così: dando per accertato che nessuno viene qui per i libri, si stazione a debita distanza dai banchi, e si stringe la mano a una persona, parlandogli di quello che si sta facendo, mentre l’altro fa altrettanto. L’obiettivo non è tanto sovrastare l’altro, quanto non ascoltarlo. L’obiettivo è la soddisfazione in sé, solipsistica, perfetta, del proprio sé. Sembra facile, ma in realtà è molto stancante. Per ovviare alla fatica ci atteniamo a un protocollo sanitario classico suggerito a chiare lettere già da Hemingway e facciamo amicizia con un barista, uno molto bravo, di scuola junghiana. Così andiamo via dal Salone che ci sentiamo perfino felici, direi in forma.
Del resto era quello che ci voleva, perché la parte impegnativa della serata deve ancora venire: presentiamo in giro il libro di Luca, che è appena uscito. Il senso del piombo non è un libro facile, parla di terrorismo, di eroi fascisti e del funereo fascino che esercitano sulla fantasia.
La nostra prima tappa è il Gabrio, un centro sociale. Chiediamo a Irina di condurci, ma è diventata riottosa, chiusa, ostinata: intuisco che ora anche lei ha un romanzo nel cassetto, e non le va di essere trattata da semplice navigatore satellitare. Per fortuna dentro un’auto, ferma come la nostra al semaforo, troviamo un uomo con delle grosse occhiaie che ci dice di seguirlo.
Le presentazioni sono come la cresima: una certa serie di gesti, di parole, un prete che presenta, il cresimato che sorride e dice quello che deve dire, i fedeli che guardano con attenzione, sorridono e, alla fine, applaudono. Poi la messa è finita. Così, di solito. Ma poi vedi che la bellezza la trovi, certo non gratuita, quando non la cerchi più. Entriamo al Gabrio, e dei ragazzi ci fanno entrare in una grossa sala. Parliamo con loro, e parliamo a turno: uno dice una cosa, l’altro ascolta, poi risponde, e via dicendo. Parliamo nello specifico dell’idea di letteratura di Gramsci, della letteratura popolare d’arte, dell’autonomia dell’espressione artistica. Sono cose che non capitano tra scrittori. Poi ci fanno sedere su delle sedie e un gran numero di ragazzi si mettono in circolo attorno a noi. Messa così non sembra più di stare in chiesa, ma in una piazza greca, fra uomini liberi. E poi lo stesso fenomeno: cominciamo a parlare del libro e i ragazzi fanno domande, sul perché è stato scritto, sul come è stato scritto. Parlano, loro, di mito, della sua funzione, anche del suo impiego. Stiamo un bel po’ così, tra uomini liberi, a discutere di letteratura. Il salone è molto lontano.
Alla fine ci salutiamo. È un peccato doverlo fare, ma ci salutiamo. Presentiamo il libro in altri posti. Dobbiamo pure sbrigarci, perché non conosciamo la città e Irina non vuole sentir parlare di lavoro. È cupa. Si sente incompresa. Dice che è tutto un complotto degli altri scrittori. Per fortuna passa un tizio, un grosso omone e, non ricordo chi di noi gli chiede l’informazione, quello ci indica la strada migliore. Ci ho messo tutta la notte, poi, a capire chi era. Non era Bondi.      


Gioacchino Lonobile, nel frattempo, a capo di una squadra, con maglietta della Cricca indosso, partecipa a una grande festa danzante indetta da un editore di prestigio

ORDO POPVLVSQVE TAVRINVS OB ADVENTVM REGIS sta scritto su di essa. La Grande Madre: divinità femminile primordiale, in cui si manifesta la terra, la fertilità, il femminile come mediatore tra l'umano e il divino. La Grande Madre vede tutto: la nobiltà decaduta che si trasforma in naturale eleganza, generazioni di operai che viaggiano in utilitarie e tricolori che ricoprono le strade della prima capitale. La Grande Madre vede una fiat panda bianca che puzza di olio bruciato, con quattro uomini sopra, tre dei quali hanno affrontato un lungo viaggio e indossano una maglietta nera con un teschio. La Grande Madre vede l’auto fermarsi perché ha trovato posto dall’altro capo della strada e una punto con i cerchi in lega e un grosso alettone posteriore mandare a quel paese  i quattro della panda bianca. La Grande Madre vede la memorabile festa danzante a cui nessuno può mancare e le centinaia di persone che vi partecipano e le centinaia di persone che vi partecipano. Si può entrare solo se si ha l’invito, all’ingresso i buttafuori  controllano, ma c’è chi riesce a entrare dalle finestre. Orde di editori sull’orlo del fallimento, scrittori che vorrebbero pubblicare e altri che hanno pubblicato a proprie spese. Non ci sono lettori, ma solo gente che dice di aver letto. La sala, con il bar e i balconi con vista sul Po, è stracolma. Sul piazzale una lunga fila. La Grande Madre vede quelli della panda bianca arrivare, temporeggiare con disinvoltura, tra chiacchiere e risate e poi recarsi all’ingresso. I quattro non hanno un invito, ma hanno le giuste conoscenze. Telefonano a un amico che è autore presso la casa editrice che ha organizzato la festa, all’ingresso arriva prima lui poi tre inviti, ma loro sono in quattro. Due entrano, gli altri aspettano fuori. La calca è impressionante, ormai nessuno riesce a entrare dalle finestre. L’amico ripete ai buttafuori di fare entrare i restanti due. Senza invito non si entra, rispondono. Sono un autore! Esclama lui, ma loro non sanno nemmeno di cosa stia parlando. L’amico offeso va via. I due si avvicinano ai buttafuori, spiegano la situazione, in fin dei conti manca solo un invito. Uno degli energumeni li guarda, siete romani? chiede. In realtà sono entrambi siciliani, ma sì vivono a Roma. La calca spinge per entrare, ormai sono rimasti solo quelli senza biglietto. Il buttafuori fa segno ai due, e gli passa di nascosto uno degli inviti che tiene in mano. Ora i quattro della panda bianca si ritrovano dentro, la densità umana presente non permette di muoversi, la musica fa schifo, loro non si divertiranno per niente. La Grande Madre vede tutto questo, ma non se ne cura.



Roberto Mandracchia esprime un parere generale ma disinteressato sul Salone di Torino.

Subito dopo la morte, la salma di Lenin viaggiò da Gorkij fino alla stazione di Paveletsky, Mosca. Nessun vagone piombato, a questo giro. Stalin e soprattutto Feliks Dzeržinskij, capo della Čeka, vollero fare del corpo del rivoluzionario - nonostante egli avesse dichiarato più volte di voler essere seppellito accanto ai suoi compagni - un simbolo da esporre e da venerare in un apposito mausoleo al Cremlino. Lo congeliamo, si chiesero; Ma sta già cominciando a marcire, non abbiamo tempo, risposero altri; Imbalsamiamolo, propose qualcuno; Imbalsamiamolo, decretarono quasi a una sol voce. L'anatomista ucraino Vladimir Vorobiov e il dottor Boris Zbarsky, a capo di un gruppo di medici, procedettero così all’imbalsamazione. Aggiungi questa cosa qui, estrai quell’altra cosa lì, inietta, spurga. Da più di ottant'anni il sovietico fantoccio viene fatto oggetto di trattamenti e attenzioni affinché appaia come se gli mancasse soltanto il respiro: ogni settimana viene ispezionato per rilevare tracce di muffa o fenomeni degenerativi; ogni anno e mezzo viene immerso per trenta giorni in un bagno di glicerolo e acetato di potassio.
  Un po’ come la letteratura, al Salone del Libro di Torino.



Il ritorno: Eva Moretti e i tatuaggi di papà

Mi ha detto che va a Torino. E’ mio padre, ma spesso lo chiamo nonno perché passo più tempo con il suo, di padre. Gli ho fatto una promessa, al suo ritorno lo abbraccerò e lo chiamerò papà, anche se la prima parola che mi verrà in mente sarà nonno, mi sforzerò di chiamarlo papà, in cambio lui mi porterà i libri: quelli della Pimpa da colorare e i pop  up, che quando mi rode, li posso ingurgitare come fossero patatine.
Dice che va al Salone del libro, che non è un salone ma un posto dove ci sono i libri per bambini e i bambini che scrivono i libri.
L’ho salutato dalla finestra con la mano, l’ho chiamato nonno per un’ultima volta, che non si sa mai, che mica è sicuro che tornerà con i libri che mi ha promesso, che le promesse stancano lo spirito, e lui lo sa bene.
Poi mi sono sdraiata sul mio letto, che più di un letto è una culla, ma io sono come un nano e quindi a me sembra un letto grande. Mi sono messa sul letto e ho pensato a questo Salone del libro, pieno di bambini che scrivono libri e di gigantografie della Pimpa, con i bagni pop up che puoi fare pipì ovunque anche se non indossi il pannolino, che a me i pannolini non sono piaciuti mai.
Ho pensato a mio nonno, ops, mio padre, che camminava tra tutti quei bambini che scrivono libri e tra tutti gli animali quadrupedi come la Pimpa che annusano il sedere dei loro simili e passano la giornata a leccare il culo dei quadrupedi più grandi. Ho pensato a mio padre con i suoi vistosi tatuaggi che camminava tra questi strani esseri leccaculo, con bagni pop up che si aprivano al suo passaggio e una vomitevole puzza di pipì di bimbi cui avevano troppo presto tolto il pannolino.
Mi sono chiesta cosa ci faceva lui in quel Salone senza divani ma pieno di scranni scricchiolanti, tra bimbi viziati e senza pannolino, ancora una volta lontano da casa, quasi a volermi costringere a chiamarlo, nuovamente: nonno.
Ho deciso di dormirci su, ho bevuto il mio solito mezzo litro di latte saturo di biscotti tritati e mi sono appisolata sulle immagini lisergiche dei Waybuloo. I Waybuloo sono dei pupazzi idrocefali con le pupille dilatate. Papà dice che ingeriscono delle pasticche che gli fanno gli occhi belli ed è per questo motivo che poi volano e ballano come dei cretini. Comunque i Waybuloo conciliano il sonno, lo dico per esperienza personale.
Dormivo ma la televisione mi sembrava ancora accesa, un Waybuloo con degli occhi azzurri e grandissimi mi tendeva la mano, la afferrai e lui mi tirò e in un attimo fummo sopra l’Italia in miniatura, che io non ci sono mai stata, ma mio nonno, quello vero, sì, e io ho visto le foto. Poi siamo entrati in questo Salone gigantesco pieno di bambini che scrivono e io ho visto mio padre che comprava un libro per me.
In quel momento mi sono svegliata e ho capito tutto, ho capito perché era partito per Torino.
Al suo ritorno mi sono fatta trovare dietro la porta, è entrato porgendomi un piccolo pacco, non ho spiccicato parola e ho preso subito a scartarlo. All’interno c’era il libro che mi aveva comprato al Salone di Torino: “I misteriosi tatuaggi di mio papà”.

L’ho guardato un po’ e poi abbracciandolo gli ho detto: grazie papà.



 Biblioteca essenziale

Albert Camus
Caligola
Bompiani
p.72
e. 6,20


Caligola un giorno disse che i senatori erano tutti asini, e tempo qualche ora tutta Roma seppe che aveva nominato senatore un asino: Caligola era nato per creare leggende e diventare un mito, e Camus, con il suo occhio lungo di uomo abituato al deserto e alle riflessioni che sconfinano, dietro il suo mito scorse coscienziosamente quello del Dioniso nicciano. Lo scrittore svilupperà questa riflessione mitologica nel corso di un travagliato lavoro di riscrittura che, dal 1937 al 1958, lo porterà a redigere tre diverse versioni della sua opera teatrale. È un lavoro tormentato, gravato dai dubbi etici dell’autore, che coincide con le vicissitudine tragiche della seconda guerra mondiale. L’iniziale rappresentazione sacra del dio cretese che rivela agli uomini la forza sconcertante della vita indistruttibile, diventa man mano qualcosa di diverso. Questa vita pura, che si manifesta come atto per eccellenza e, quindi, poesia, diventa la metafora di una corrività novecentesca: un poeta al potere. Se un poeta è al potere non può fare altro che applicare le leggi implacabili della poesia, quali sono immaginate dalla fantasia del Novecento: assurde, o, se si vuole, logiche fino all’assurdo. Questa è già Hitler, e, dunque, Camus dovrà terminare un’ultima versione, che è una castigata reprimenda della poesia, con un noioso pamphlet contro il nazismo e un panegirico della virtuosa resistenza. Camus si è sentito costretto a questo, congetturando che il suo Caligola somigliasse troppo al dittatore tedesco. Sarebbe piuttosto il caso di pensare il contrario, o, ancora meglio, che quello che ci ha portato fino al nazismo e, dal nazismo, fino ai nostri giorni, è la stessa idea di vita e, quindi, di poesia, che si agita dietro le diverse redazioni del suo Caligola. La brevità dell’esistenza non ha concesso allo scrittore francese di redigere oggi una quarta e conclusiva versione in cui la ragione ridotta a ragioneria, e la poesia a pubblicità, consente dittature il cui assurdo ha le tinte angosciose di un pecoreccio da bar sport.
   Il sogno della ragione produce mostri, ma il problema è che, a forza di ragionare troppo, si finisce per annoiarsi e addormentarsi: evadere nel sogno. Con il romanticismo, la poesia, o la vita pura, è sentita come pervertimento dell’ordine sociale, e quindi della ragione (prima di tutto commerciale): sregolatezza quintessenziale. Con certa consequenzialità, Dioniso sarà immaginato come latore di questa infrazione continuata delle leggi: un Dio del delirio. Una fantasia che un greco difficilmente avrebbe condiviso, perché se la vita pura e indistinta si presenta all’uomo come cosa terribile, questo terribile è pur sempre il fondamento della sua vita individuale. Platone poteva placidamente affermare che è dal timore panico con cui ci sottomette il Dio che nasce lo Stato. Allo stesso modo, avrebbe potuto affermare (se la cosa gli fosse convenuta) che la poesia produce realtà.
   Questo terribile movimento verso l’ordine, in fondo, è ciò che si rivela nelle congetture realmente rivoluzionarie (sia o meno un poeta a capitanarle, come a Fiume). Un movimento che ci sembra precluso, oggi, per sempre.
   Se Caligola è la poesia come delirio e la manifestazione incontrollata della vita nella sua essenza, in effetti, non ci resta altro che reprimere questo fardello infame. Reprimere questa forza, per quanto ci può costare in termini umani, è operazione fondamentale più semplice che guardarla in faccia, e riconoscerla.
   Alla fine, se ci rimane qualcosa che brucia ancora dentro, non tenuto a bada dall’ascesi psicanalitica, dai riti dell’abulismo e dell’anoressia, dalla ricerca estasiata delle piccole gioie quotidiane, dalla lotta bastevole e educata per conquistare la propria fetta di terra al sole; se ci rimane un po’ di poesia tenuta salva dalla creatività e dai suoi corsi per svilupparla (magari fino al gioioso momento dell’uscita del libro e la coronazione con coro che intona saranno famosi: Bolaño mostra di sapere tutto lì dove indovina la stretta correlazione che passa fra il numero delle scuole di scrittura creativa presenti sul territorio di una nazione e l’assenza di libertà costituzionali che vige in detta nazione); se ci rimane un po’ di fiato vivo in corpo, avremo ancora la forza di osservare, con la vecchietta siracusana, che morto l’ultimo dittatore (ultimo in ordine di tempo); morto questo dittatore, sicuramente con un calzino in mano durante lo svolgimento di un’orgia al dopolavoro aziendale, il peggio dovrà ancora venire.
    È bello oggi riprendere in mano il copione di Camus per nutrire questo sospetto. È una lettura che potremmo assumere come omeopatica. Consigliabile (prima di tutto per la sua bellezza implacabile) è soprattutto la versione del 1941, dove, insieme a Cherea, potremmo arrivare a pensare che siamo tutti Caligola. Come Caligola non stiamo riconoscendo una forza terribile ed essenziale che è nutrimento per la nostra vita. Come Cherea potremmo arrenderci all’evidenza che l’unico modo in cui facciamo salva la nostra anima è incaricando un tiranno affinché si assuma tutti i peccati del mondo.

Pier Paolo Di Mino



Quando Teresa si arrabbiò con Dio
Alejandro Jodorowsky
Collana: Universale Economica
Pagine: 336
Prezzo: Euro 9,00


"Sono anni che ridi alle nostre spalle. Hai creato un popolo eletto solo per tormentarlo. Io ti maledico, io ti nego, meriti il mio disprezzo."
Rilessi quelle parole non so quante volte.
Le trovai tra la posta, un mattino in cui poche nuvole non riuscivano a turbare il sole già pronto per l’estate. La mia cassetta delle lettere è vecchia e in legno, può essere aperta facilmente anche senza chiavi. Questo non mi dava la sicurezza che a recapitarle fosse stato il postino.
La missiva era stata spedita da Teresa.
Una sua lettera era cosa alquanto strana visto che non mi aveva mai scritto prima, anche perché a quanto ricordassi non sapeva né scrivere né leggere. Questo fece albeggiare in me un triste presentimento.
Risalii i pochi scalini che separano l’entrata del palazzo al portone di casa, con la busta ancora chiusa tra le mani, dimenticando velocemente i miei propositi di colazione al bar di Rosi.
Rimasi il resto della mattina a guardare il foglio con sguardo ebete.
Cosa volevano dire quelle parole? Erano forse rivolte a una divinità? Ma cosa aveva potuto turbare l’animo di quella donna, che aveva dedicato la propria vita alla famiglia e al suo unico Dio appunto, da renderla così rancorosa nei suoi confronti?
Di solito sono eventi straordinari a far perdere o acquisire la fede, tanto più straordinari quanto più si crede o non si crede, questo è certo.
Formulai diverse ipotesi su quale disgrazia avesse colpito la povera donna, ma da troppo tempo non la vedevo né avevo sue notizie per avere un quadro almeno approssimativo di quale fosse la sua vita e dunque di cosa potesse essere accaduto.
Non sapevo perché e quando Teresa si arrabbiò con Dio.
Preparai un caffè e una sigaretta nella speranza che mi aiutassero ad avere qualche buona intuizione. La busta che conteneva la lettera oltre al mio indirizzo, via Piave 14 una strada che collega la Prenestina a via del Pigneto, e il nome di Teresa, non conteneva nessun’altra indicazione: né la provenienza, né la data in cui era stata scritta.
Decisi di interrogare le carte. Presi il mazzo e attesi qualche minuto la giusta concentrazione.
La parte più difficile è mescolar bene, chi si appresta a leggere deve avere la massima consapevolezza dell’atto che sta compiendo: distruggere un ordine prima esistente per costruirne uno nuovo. Tagliai una sola volta con la mano sinistra, posizionai cinque carte sul tavolo. Asso di bastoni, quattro di coppe, donna di denari, nove di coppe e un arcano maggiore, l’Eremita. Le studiai attentamente sorseggiando il caffè, accesi un’altra sigaretta.
Perché Teresa si arrabbiò con Dio? Chiesi. I tarocchi sembravano non ascoltare. Mi raccontarono di uomini ricoperti da api, domatori di leoni, lunghe traversate oceaniche, uomini scimmia dal piccolo pene, rivolte operaie, ogni volta che cercavo la risposta le carte erano pronte a narrarmi una nuova storia sempre diversa che nulla sembrava spartire con Teresa, forse avrebbero potuto continuare all’infinito.
Mi decisi a mescolare nuovamente. Avrei dovuto pensare a una nuova domanda, non si può interrogare le carte due volte sullo stesso quesito.
Quando Teresa si arrabbiò con Dio?
Questa volta la risposta fu chiara, esisteva un libro che spiegava esattamente ciò che era capitato a Teresa e i motivi del suo astio nei confronti di Dio.
Dal giorno in cui ricevetti la lettera ormai sono passati molti anni, non ricordo esattamente quanti, ma solo ora, in una vecchia libreria del centro, sono riuscito trovare il libro che parla di Teresa e della sua storia. Ora so perché e quando, ora so che Teresa aveva i suoi buoni motivi.

Gioacchino Lonobile




La caduta o su come si combatte in ginocchio
(Antigone/Sotto il vulcano/La caduta/Storia di una caduta)



Un giorno capita che ti ritrovi a piedi scalzi in cucina, sbricioli molliche che avresti dovuto raccogliere e guardi il lavandino mentre sgocciola con il ritmo di un pendolo. Quel giorno modifichi la voce narrante, le dai un ego che riconosci, le molliche espanse come nane giganti.
Voglio un film di fantascienza, quando sto così, voglio ascoltare i bombardamenti interplanetari e fingere che il tizio con le creste di gallina assomigli al mio nemico. Però se ne va la luce. Il vicino dice che stanno facendo i lavori. Così accendo due candele e prendo un libro.
Il finale dell’Antigone, quando il cuore è una prugna avvizzita, lo preferisco a tutti i film horror che non ho visto. Il libro chiede pietà, tu chiedi pietà, io invece amo Creonte che trova Antigone impiccata nella grotta dove lui l’aveva murata, e piango quando Emone, suo figlio, si sbudella con la sua stessa spada, e sbocconcello le mie unghie quando Creonte, tornato a casa (il palazzo di un re), trova il corpo morto di sua moglie, Euridice. Così Creonte è l’uomo caduto, quello che non si rialza, quello che ha perso tutto. E io sto già un po’ meglio.

Non ricordo quando ho letto quello che sto per trascrivere, ma ricordo che fui d’accordo: «se non riuscite ad articolare la vostra sofferenza in una struttura ben definita, siete fottuti. La sofferenza vi mangerà vivi, dall’interno, prima che abbiate avuto il tempo di scrivere qualsiasi cosa».
Era Houellebecq. Non è un problema se non sai come si pronuncia. È un problema se non lo capisci.
Il vicino interrompe la mia sbornia di viscere e dolore, e dice che la luce tornerà tra un’oretta. Lo ringrazio aprendo e chiudendo la bocca. Il suono esce stridulo, ma la porta lo caccia fuori. E viene il turno di Malcolm, l’esemplare migliore tra gli emuli del vate, Dante. Lowry di cognome, Malcolm il nome che portava. Disse che aveva scritto la Divina Commedia ubriaca, ed era vero, giuro su questa prugna avvizzita che lo è. Tocco la copertina rigida di Sotto il vulcano, rileggo le citazioni da Sofocle (giuro che è il caso a volerlo – amo questa frase, la ripeto all’infinito), da John Bunyan, da Goethe. Non sempre la caduta di un uomo corrisponde alla fine, alla morte, all’oblio, al funerale, all’assicurazione, ai litigi tra i parenti, a lei che piange sulla tomba mentre l’altra si guarda le scarpe mentre l’altra dice qualcosa al suo nuovo ragazzo. Non tutti muoiono cadendo. Seneca, nel De Providentia, scrive si succiderit, de genu pugnat. Se è caduto combatte in ginocchio. Certi lo fanno. Mio padre lo fa. Alcuni di quelli che conosco non lo fanno. Certi cadono perché è ora di lasciarsi andare, altri perché hanno paura, provano vergogna. Altri perché sono rimasti soli. Una ragazza che lavorava all’ambasciata italiana a Tokyo mi ha raccontato che nei giorni che hanno seguito l’onda anomala e i guasti a Fukushima, molti anziani si sono suicidati. Non si sa quanti. Dicono in molti.
Malcolm Lowry, morto a 48 anni, scende nel vulcano e ne fa un criptogramma. Si porta dietro il Messico liquido, disegna un luogo che è un plagio impossibile, affresca pagine come se Dalì usasse il coltello di Fontana. Sotto il vulcano finisce male, devo avvisarti, peggio dei film di fantascienza in cui l’astronauta fluttua nell’assenza di gravità come un palloncino alla fiera dei Balocchi. Finisce con un burrone, con una caduta senza scampo. Rileggerlo mi fa sempre bene.

E poi ci sono quelli che cadono ammettendo la caduta, calcolandone la gravità, sforzo inutile ma degno di nota per quelli che osservano la traiettoria, per quelli che poi si sentiranno in colpa per non aver fatto abbastanza. Chi cade così accusa il genere umano, a partire da se stesso. Sono i peggiori. Sono quelli che cerco.
Chiaro che parlo di Camus, del monologo di Jean-Baptiste ne La caduta, ovvio che ce l’ho con lui, con Camus, e anche con Jean-Baptiste, razza di bastardi che mi stiracchiano l’anima. Camus fa a dire all’uomo che precipita una cosa che ho sempre saputo, ma che non voglio capire: «c'è sempre qualche ragione per l'uccisione d'un uomo. È invece impossibile giustificare che viva ».
Il suono delle nocche del vicino significa qualcosa, qualsiasi cosa, che la luce è tornata, per esempio, che io non l’ho seguita, che la luce non tornerà, che non mi interessa che torni, che sono in caduta e non ho tempo.

Prendo un’altra caduta dalla libreria dell’Ikea, perché ho fame di male, perché il vicino bussa e ancora bussa, ma il silenzio cade su Stefan Zweig, sulla prima storia di Storia di una caduta, e piango di gioia mentre Zweig accoltella Voltaire, Diderot, Laclos, mentre seppellisce i Lumi sotto il cinismo di Madame de Prie, marchesa alla corte di Luigi XV, fallita e scacciata, andata in esilio fingendo che fosse una vacanza, lontana da Parigi, dalle feste, dai corpi che le riscaldavano il sesso. In campagna, tra gli zoticoni, la marchesa si deprime, la rabbia monta, la montano i ricordi che ora non la ricordano. Definisce una strategia: l’ultimo ballo, l’ultima sera. Prima di farlo cerca un corpo di uomo da usare. Lo trova nei vestiti di uno zoticone. Lo usa, si fa usare, scopre di essere usata. La caduta è rapida. Decide di mettere in scena la sua morte. Richiama i vecchi amici nella sua villa, nella campagna lontana da Parigi. La gente è curiosa, accorre. Va in scena, la marchesa, e il giorno dopo muore suicida. Nessuno la ricorderà.
Come un’esplosione di neutrini in un film di fantascienza anni ’80 la luce mi acceca, cado dalla sedia, la sedia urta la libreria, la libreria vomita libri come se saltassero via da un fuoco, come quelli del sinologo Peter Kien in Auto da fé di Canetti, e me li ritrovo sulla pancia, che schiacciano l’ombelico, reprimono il respiro. Mi alzo ma cado. In ginocchio posso guardarli. Se è caduto combatte in ginocchio.

Marco Lupo


Santi, eroi e scrittori



Castruccio Castracani. Decisamente eroe
A cento metri dal McDonald’s di Lucca est, vicino allo svincolo dell’autostrada Firenze-Mare, Francesco T.C., 47 anni, piuttosto ubertoso o semplicemente sovralimentato, sta lavorando alla stazione di servizio di proprietà del cugino, Mario T.C. detto “il polposo”. Francesco sgrassa carrozzerie incrostate nel nuovo autolavaggio comprato a rate dal cugino. Verso le 19:00 chiude l’impianto e va a farsi una doccia nel monolocale sopra la stazione di servizio. Mara, la cassiera del supermercato annesso, lo va a trovare verso le 19:30, quando ha chiuso la porta con il vetro anti-proiettile e il cancello di ferro nero. Fanno l’amore sul divano. Cenano. Quindi Mara torna a casa sua con lo scooter comprato a rate. Verso le tre del mattino, Francesco apre la cassettiera in corridoio, cimelio di famiglia. Srotola un involto di carta da regalo che contiene uno stemma araldico, un anello d’oro grezzo e un orecchio imbalsamato. Francesca T.C., 47 anni, precario presso una stazione di servizio, sogna tutte le notti di scrivere qualcosa su un suo antenato.

Prima che la Guerra del Golfo inaugurasse gli anni Novanta, entrando nelle case da tubi catodici che i bambini di cinque anni non sanno cosa siano; prima che Shakespeare e Cervantes morissero quasi all’unisono; prima della prima scena del Coriolano (quando i plebei romani si ribellano a Caio Marzio; quando il conflitto è chiarito e gli eroi strisciano sulla terra, ventre di vermi e ossa, imbuto di morte e piastrine, centrifuga di spade che s’agitano nel Globe Theatre), mentre Shakespeare condanna la guerra mostrando carneficine, mentre il popolo in piedi lancia pezzi di cavolo sulla scena, mentre Don Chisciotte s’agita su Ronzinonte, e Cervantes comprime la guerra in un mito, un rettangolo di carta e eroi che muoiono dimenticati, e sembra strano ma lo spagnolo lascia perdere le lettere scrivendole, perché è soldato, prima di essere scrittore: prima che chi scrive esageri farcendo periodi troppo lunghi, si narri la breve storia del ghibellino.
Nella tenda l’uomo si fa vestire da un ragazzo: il camaglio di anelli di ferro penetra la testa del figlio degli Antelminelli, Castruccio Castracani si chiama.
Castruccio, dice il ragazzo, mentre lo copre con scarsella, panziera e cotta di piastre, che anche se Castruccio non è il mago di Oz lo sembra, ché metalleggia con le giunture, incrina testa e chiude occhi nell’elmo col pennacchio nero.
Castruccio, dice il ragazzo, Montecatini sarà tua.
Così sia, così è e così tanto piacque Castruccio a quelli che lo seguirono, che cinquecento anni dopo, la scrittrice Mary Shelley, quella del Frankestein, o il moderno Prometeo, infilzò la fama un po’ sbiadita di Castruccio per farne un’epopea quasi femminista, Valperga, Vita e avventure di Castruccio, principe di Lucca.

Sette ore dopo il ragazzo spoglia Castruccio nella tenda. Una coscia di coniglio per la pancia, i denti che strappano pezzettini di cibo per le mosche, la mente di Castruccio ai tornei vinti in Inghilterra, l’anello di Edoardo I d’Inghilterra, Edoardo Plantageneto detto “Gambelunghe” o “martello degli Scoti”, la mano di quel re che tagliò la testa a William Wallace, per esempio, che Castruccio baciò resistendo a flatulenza improvvisa, disse poi al ragazzo che lo seguiva ovunque. L’aria inglese, doveva essere. Così Castruccio, esiliato da Lucca per la politica dei Guelfi, immigrato in Inghilterra e poi cacciato per omicidio d’onore, tornato a Lucca vinse a Montecatini, ma poi fu imprigionato da Uguccione della Faggiuola, amico e poi nemico. Pronto ormai per il taglio della testa, il popolo dà fuoco alle piazze, Castruccio esce di prigione e diventa Capitano Generale della città di Lucca.
«Fu adunque Castruccio Castracani da Lucca uno di quegli; el quale, secondo i tempi in ne’ quali visse e la città donde nacque fece cose grandissime e, come gli altri, non ebbe più felice né più noto nascimento, come nel ragionare del corso della sua vita si intenderà.» Così scrive nel 1520 Niccolò Macchiavelli.
A Castruccio piace razziare, incendiare, assaltare, cadere, perdere una città, vederla rovesciata e poi riprenderla, fischiare qualcosa ai duemila balestrieri che lo seguono e ascoltare il suono delle frecce ululanti, strapparsi di dosso pezzi di uomini incrociati in battaglia e poi sputare sull’effigie di Papa Giovanni XXII, ridere della scomunica e ripartire così, razziare, incendiare, assaltare.
Così Castruccio Castracani, cane bianco in campo azzurro, dice lo stemma araldico, si sveglia nella tenda che è già settembre. Il ragazzo che lo segue nelle battaglie sta pulendo l’armatura con alghe di lago e saliva di ragazzo ormai invecchiato.
Prima che Saddam Hussein muoia impiccato in mondovisione, prima che Shakespeare e Cervantes dicano qualcosa sull’umano e sul disumano, prima della presa della Bastiglia, prima della nascita di questo o di quest’altro Papa, prima di Oz e in anticipo su un sogno ricorrente, il ragazzo dai capelli bianchi parla.
Castruccio, dice il ragazzo, è ora di morire.

Francesco T.C. alza la tapparella e si stropiccia gli occhi. Il sole del mattino illumina la stazione di servizio. Da qualche parte, vicino ai distributori di sigarette e preservativi, potrebbe essere sepolto il corpo del suo antenato. In fondo, del ragazzo dai capelli bianchi nessuno si ricorda.

Marco Lupo

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