domenica 6 marzo 2011

recensione di Milva Maria Cappellini su Stilos


STORIA DI POSSESSIONE E DI CERIMONIE TRIBALI


di Milva Maria Cappellini
 
In un convegno del 2008, all'Università di Liegi, la figura di Gabriele d'Annunzio veniva esplorata da un punto di vista insolito e quanto mai intrinsecamente dannunziano: nei suoi usi e nelle sue epifanie come personaggio nell'immaginario italiano ed europeo a partire dal 1938. Ne emergeva una costellazione di manifestazioni letterarie varia e diseguale. Introducendo gli atti, Luciano Curreri, dannunzista acuto ed eslege, rilevava come, in certi casi, "quando si punta e si insiste troppo sull'individuo [...] la figura intellettuale in questione diventa spesso un feticcio o, se si vuole, un tema [...] e quindi dalla riproposta sera, finanche sublime, si può passare con una certa facilità al cattivo gusto, e finanche al kitsch". Invece, proseguiva Curreri, "quando si cerca di legare l'individuo a un destino e a un processo collettivo, finanche in prospettiva, è più facile passare dalla riproposta altisonante (e da certe innegabili derive) alla vera riscoperta e riattivazione di una vita, di un iter umano e intellettuale, significativo in sé e per i dintorni". La premessa lunghetta serve a contestualizzare a dovere il romanzo di Massimiliano e Pier Paolo di Mino, Fiume di tenebra, nel quale il legame tra d'Annunzio e l'impresa fiumana connette davvero l'intero "processo collettivo" di quegli anni e di molti anni successivi. Addirittura, del Comandante compare, nel romanzo, solo l'involucro muto, e proprio in questo la sua sostanza di vero "tema" diventa la parabola di un'epoca e di una nazione nel suo disordinato farsi. Se in questo romanzo d'Annunzio, al di là della sua plausibilità documentaria (che interessa poco nella logica di questo romanzesco), è un feticcio, ciò accade non per difetto di individuazione o caratterizzazione, ma perché gli viene riconosciuta tutta intera la funzione di feticcio, anzi di totem. Nel romanzo di Pier Paolo e Massimiliano Di Mino, quella dei legionari fiumani è una storia di possessione, più o meno volontaria, e la loro impresa è una cerimonia tribale: l'evocazione dello spirito di una comunità inesistente. Di fatto, poi, anche il totem è nascosto, poiché al centro del romanzo si pone l'assenza di d'Annunzio, e tuttavia l'ossessione di lui si impone quale ipostasi di un destino tanto più ineludibile quanto del tutto epigonale. Tutto intorno al profilo di questa assenza, intorno al cranio polito del Vate-Reggente, fermenta una eterogeneità furibonda, il bulicame gonfio di tutti i velleitarismi e di tutte le smanie e contraddizioni e di tutte le sopravvivenze. Il capitano Italo Serra (omonimo di un altro Serra, tenente, finito ben altrimenti, sul Podgora, qualche anno prima: un diversissimo modo di essere italiano e intellettuale) oltrepassa a Fiume la propria linea d'ombra, con lo sguardo allucinato di chi è pronto a diventare Nessuno ma anche con i tratti storicamente assai precisi del reduce della Vittoria Mutilata. Ciò che Serra vive a Fiume, perdendo via via i connotati della propria individualità storica per ridursi a entità antropologica (allegoria dell'essere italiani?), è un'esperienza iniziatica e un rito sacrificale: appropriato è dunque il realismo allucinatorio dello stile, con la nettezza stravolta dei dialoghi, la straniante accumulazione verbale, la compulsione angosciante del deittico: "Questo male lo aveva conosciuto il capitano Serra, come lo conoscevano questi ragazzi: [...] Si diventa deboli, promiscui, mescolati, femminei, confusi e smarriti: come questi ragazzi della brigata Disperata". La storia della Città Olocausta che Fiume di tenebra racconta è una visione e insieme (per usare parole di uno dei due autori), un evento mitologico: un mito di fondazione che è invece il racconto di una dissoluzione. L'impresa dannunziana, lo sappiamo, aveva in sé i germi della fine: la Città di Vita covava il principio della propria morte. Uccidere il Comandante - episodio di incerta verità storica, ma di indiscutibile densità simbolica - diventava allora un gesto tautologico, e quindi una volta ancora rituale: uccidere il proprio totem significa decretare l'estinzione della propria civiltà (o di quella illusione che si è provvisoriamente creduta civiltà). Poi, si sa, furono le cannonate dell'Andrea Doria, nel Natale di Sangue del 1920, a decretare la fine dell'ultimo volo di d'Annunzio (il Volo dell'Arcangelo, dal balcone della Prioria del Vittoriale, neanche due anni più tardi, sarà piuttosto un capitombolo). Ma per la nazione sarebbero venute altre mortifere illusioni, altre apocalissi di civiltà, e stordimenti e ricostruzioni. Fino al nostro presente, non meno postribolare ma ancor più feroce, di nuovo assetato di reduci pronti a diventare Nessuno. 

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