sabato 26 febbraio 2011

Il libretto rosso di Garibaldi su Il Recensore

 di Michele Lupo

Giuseppe Garibaldi, l’uomo che ammira la Comune di Parigi, che grida “Morte ai preti!”, che vorrebbe “l’istruzione obbligatoria, gratuita e laica”, è il protagonista di un “libro esortativo”: così gli autori definiscono “Il libretto rosso di Garibaldi” (Purple Press, 2011). Non ha pretese filologiche infatti il piccolo volume curato dai fratelli Massimiliano e Pier Paolo Di Mino, ma quelli su cui poggia sono pur sempre documenti scritti di proprio pugno dal grande generale.
L’”Eroe dei due mondi” in un’epoca che ancora non conosceva fino al paradosso odierno quell’eterogenesi dei fini per cui il simbolo internazionalista del comandante Che Guevara conclude la sua vicenda in mano ad abilissimi uomini d’affari - basterebbe chiedere a Hollywood.
Un Garibaldi non dottrinario, poco sofisticato ma tutt’altro che buzzurro com’è piaciuto a molti di rappresentare, bistrattato da Karl Marx, è dunque l’autore di un regesto di lettere, proclami, documenti vari dai quali prendere le mosse per ritenerlo promotore di “un socialismo ideale, non ideologico”. Quest’uomo che obtorto collo non poté mancare di manifestare frustrata lealtà ai Savoia mugugnando e arrabbiandosi assai, sognò una patria socialista, scrivono i Di Mino, di sicuro anticlericale, certo non nazionalista come pretese di far credere la vulgata fascista: ossia un’Italia che non fosse solo unita e indipendente ma anche giusta, democratica. Del resto, scrive lo stesso Garibaldi alla direzione del “Secolo” di Genova il 20 dicembre 1880: “Il mio repubblicanesimo differisce da quello di Mazzini, essendo io socialista”.

Pier Paolo e Massimiliano Di Mino
proseguono una loro linea mitologica, interessata forse più al possibile che ai dati oggettivi della storia. Come in “Fiume di Tenebra”, il precedente romanzo dedicato all’esperienza dei Legionari di D’Annunzio, si privilegiava un’esegesi in positivo di una vicenda non priva di contraddizioni, così in questa prova le stesse vengono risolte nel segno di una lettura che intanto ricorda quanto si sia lavorato per “demitizzare” Garibaldi, che intanto ricorda come alla tarda nobiltà italica e alla sua storica alleata, Santa Romana Chiesa, sia convenuto innervare l’immaginario dei sudditi della penisola con un’immagine banditesca del generale; ma che prima di tutto sottolinea in lui gli aspetti eroici, uno dei pochi segni epici della nostra storia, quella che per i due curatori del libretto dovrebbe nutrirsi più di questi esempi che della lettura convenzionale di un popolo cinico e sentimentale, truffaldino e approssimativo etc…
Ora, il problema ad avviso di chi scrive non è tanto in quella lettura in sé, quanto l’utilizzarla per accettare lo status quo. Ben peggiore è la visione, quella sì omologa al suo oggetto, degli “italiani brava gente”, il mito senza ragione rischiando sempre derive fascistoidi. La giusta dose di razionalismo non impedisce l’esercizio della volontà: a meno di pensare che Gramsci non valga Garibaldi.
Classe benemerita” egli definisce in una lettera quella degli operai inglesi, più volte lo dice delle società operaie italiane, più volte invoca una fratellanza universale che non ha solide basi teorico-argomentative ma alcune semplici parole d’ordine alla quali Massimiliano e Pier Paolo Di Mino riconoscono una podestà sincera ed esemplare: “Lavoro, patria, libertà”, in virtù della quale i servi hanno il dovere, più che il diritto, di abbattere i tiranni.


Articolo originale:

 http://www.ilrecensore.com/wp2/2011/02/il-libretto-rosso-di-garibaldi/

Nessun commento:

Posta un commento