sabato 11 febbraio 2012

OCCIDENTE Storia di un declino implacabile in dieci mosse - IPAZIA


OCCIDENTE
Storia di un declino implacabile in dieci mosse
Massimiliano Di Mino, Pier Paolo Di Mino, Marco Saura

INTRODUZIONE
 
L’Occidente, omen nomem, sembra nato per il proprio declino. Perfino le più alte intuizioni spirituali, culturali e filosofiche che segnano la sua storia sono state usate per consumare questo destino di massacri e orrori che sembrano correre verso un’apocalisse non meno sperata che temuta.
“Occidente” raccoglie dieci racconti, dieci biografie di altrettanti personaggi cardine che rappresentano la storia dell’Occidente, dalla nascita dell’impero romano all’attuale declino dell’impero americano, passando per la nascita della banca mondiale: asceti, mistici, massoni, scienziati, filosofi, scrittori, politici, re, imperatori ciecamente impegnati a correre verso una catastrofe oggi sentita come imminente (con tanto di profezie sul 2012).
Raccontare la storia di questa catastrofe (di una catastrofe chiamata Storia) non è solo un irriverente piacere, ma anche un atto di fede. Un atto di fede nel racconto, e nelle parole con cui si fa un racconto.
Da ultimo Wittgenstein ci ha insegnato che le parole non corrispondono più né alle cose né ad alcuna verità: che sono inutili e morte. Al racconto, così, è stato possibile sostituire la pubblicità. Ma in fondo è sempre stato così. Così si fa la Storia. Ogni volta che un uomo ha alzato la testa per dire che l’altro mondo è questo, che l’apocalisse è ora, che tutto il reale è un’epifania, che ogni uomo produce secondo le proprie capacità per mezzo dell’immaginazione, ovvero della capacità di evocare il reale nella sua essenza; ogni volta è stato necessario distanziare queste parole dalla loro realtà. Questa necessità la chiamiamo Storia; e la Storia, allora, altro non si rivela che la fede in una fantasia allucinatoria, che non importa se ha per oggetto un Dio che crea dal nulla un mondo da redimere con la promessa di un paradiso, o, ed è lo stesso, un uomo che questo mondo lo redime col progresso. L’unica necessità impellente della storia pare essere il ridurre l’immaginazione a fantasia, e le parole a pubblicità. L’importante è l’inevitabile incredulità che tutto questo produce, e che ci fa, dunque, sperare in una assolutoria e pacificatoria catastrofe.
Ho suggerito sopra una distinzione che meriterebbe una lunga disamina: quella tra fantasia e immaginazione. Mi limiterò a metterla giù così, distrattamente: usiamo l’immaginazione quando evochiamo un dio secondo le nostre possibilità; la fantasia, invece,  quando lo creiamo secondo i nostri intenti. Nel primo caso godiamo di un’esperienza, nel secondo di un oggetto fatto da noi e per noi. Un oggetto crea appagamento, e l’appagamento, inevitabilmente, porta all’insoddisfazione. Ogni insoddisfazione  ha bisogno di nuovo appagamento. Per dare un senso a tanta inutile e perpetua fatica è necessario, allora, pensare che il nostro dio sia l’unico, il solo, il vero. E, per fare questo, dobbiamo necessariamente trasformare il nostro dio in reale. Dobbiamo, allora, innanzitutto  creare la fantasia del reale. Creata la fantasia di un dio unico e di una realtà unica, bisogna scordarsi che è una fantasia. Piccolo esercizio che, specie se eseguito collettivamente, ha sempre buona riuscita. Il fine dell’esercizio è fare in modo che in giro non ci siano altre fantasie, in maniera da rimanere intrappolati ciecamente e senza scampo in un’unica prospettiva cognitiva. Da qui il “fateli entrare per forza” evangelico: convertire a questa fantasia con le buone o con le cattive più persone possibili. I riottosi possono essere sterminati. Il teorema è perfetto, e la sua applicazione pratica, secoli dopo secoli, non ha mancato mai di suscitare un’impaurita ammirazione.
Si converrà, però, che una fantasia rimane sempre una fantasia: che è sua natura essere evanescente e tendere al nulla. Così, nella Storia, questo dio assoluto è stato necessariamente declinato secondo le diverse fantasie del momento, le differenti mode o necessità contingenti: dio degli eserciti, dio buono, dio dell’amore, dio come materia, dio come ragione, dio come storia, dio come ideologia, e via dicendo, sempre con l’intrinseca  tendenza fatale a rivelarsi come dio del nulla e a risolversi quindi in una apocalisse, una catastrofe.
L’apocalisse, che è oggi. E così, infatti, arriviamo ad oggi anche noi, nel racconto del nostro Occidente; nell’esegesi immaginale che, con questa piccola raccolta, facciamo della fantasia della Storia, o, come direbbe Joyce, del suo incubo. Una fantasia presa tragicamente sul serio. Viviamo menomati da questa fantasia, al punto che vale sempre la pena, come fa Thomas Brown, “domandarsi se nelle matematiche di taluni cervelli le linee intellettuali e fantastiche non siano affatto disposte correttamente, ma anzi, ingrandite, diminuite, distorte e malposte, donde nascono concezioni irregolari delle cose, nozioni pervertite, concezioni errate e allucinazioni incurabili”.
“Occidente” indaga queste matematiche in dieci simpatiche dispense.
Nella prima il pubblico godrà degli effetti della matematica celebrale dello sciamano Ennio, che prende per un allucinatorio dio assoluto il suo dio personale: e che si converte al monoteismo dell’impero romano nascente, e se ne fa il vate.
Quindi: la matematica del cristianesimo, preso a calcolare le misure ipostatiche di una rivelazione che deve servire a fare Storia, e che santifica, allora, perfino il Potere come Spirituale. Condannando Gesù alle sue epifanie come fossero una malattia, un disturbo schizofrenico.
Poi: la matematica distorta di San Cirillo, che trova il suo nemico in una donna, Ipatia, l’ultimo“santo” pagano di un docetismo in via di degradazione (troveremo il suo discepolo Sinesio, più in là nel tempo, a doversi arrendere alla nuova teologia cristiana, per motivi di responsabilità, “purché non mi chiediate ragione del vero significato dell’incarnazione”). San Cirillo potrà ammazzare il sacro in Ipatia e costringerlo nel culto mariano, di cui è l’inventore.
E via via vedremo come il monoteismo allucinatorio si impossessi del braccio armato di Carlo Magno; costringa al fallimento Dante Alighieri e la sua cerchia di compagni; usi la fisica dell’alchimista Newton, arreso all’era della banca mondiale; spazzi via il sogno messianico di Garibaldi, quello massonico e quello dei visionari del Novecento; fino ad arrivare alla conversione di un simpatico ubriacone al Dio della nientificazione: George W. Bush.
Questa è la storia di una fantasia che abbiamo voluto restituire all’immaginazione, di un’implacabile catastrofe rivista con gli occhi di una augurabile rivelazione. Un atto di fede, dunque, il nostro,  e quindi di amore, a cui gli autori vogliono rimanere fedeli. D’amore, sebbene, è doloroso vivere.
Ed ora, bando alle chiacchiere: ecco la storia di Ennio.
Pier Paolo Di Mino



IPATIA
[terza mossa]

Quella che segue è la traduzione di una lettera datata 20 agosto 391 d.C, indirizzata dal grande matematico Teone di Smirne a sua figlia Ipatia.

Fa questo, Ipatia, mia figlia adorata. Anzi fai quello che devi fare. Del resto il tuo carattere ostinato non ti permetterebbe di adoperare alcuna scelta che ti possa sembrare imposta. Dunque questa lettera sembra essere inutile. Forse per questo brucerà prima che tu possa leggerne anche un solo rigo. Forse questa lettera dovrà un giorno essere scritta da qualcun altro, affinché tutto questo abbia un senso.
[1] Non è questo quello che fai nell’aula in cui insegni le nostre discipline? Come giovane maestra la prima cosa che devi apprendere è che insegnare è sacrificare il proprio sapere, esporlo al fraintendimento e all’incomprensione. Talvolta al tradimento.
Ma questo vale per tutto. Perfino tuo fratello Epifanio tradisce il suo corpo esibendolo nelle gare atletiche. E fa lo stesso Atanasio, il tuo fratello diletto, che tradisce la propria abilità di mercante, nel momento stesso in cui mercanteggia. Solo l’Uno, nella sua emanazione, non si disperde, ma si diffonde. Ed ogni atto tende a risalire questa emanazione. E questo è l’atto che tutti compiono, e che nessuno può impedire che si compia. Nostro compito, nel bene e nel male, è solo quello di avere chiaro nella coscienza come si diriga questo atto.
[2] Questo ci rende differenti anche da Olimpio. Dopo la promulgazione dell’ultimo editto di Teodosio ha perso la pace e si è messo a fare minacce al vento, esibendosi nei sacrifici al tempio come un mago davanti ad un pubblico di popolani. Dice che ha avuto un sogno. Ha visto la distruzione della Biblioteca. Dice che ha visto fiamme e distruzioni. Pietosamente non mi ha detto di avermi visto morto. Ora vuole andarsene. È convinto di essere l’anello di congiunzione fra il sogno e la realtà e che, se se ne va, il suo sogno non si avvererà. Ed invece, malgrado la sua fuga, malgrado io cercherò di salvare i papiri, e la mia vita e quella di Zeev, tutto si avvererà come nel suo sogno.
[3] Non so cosa penserai di me dopo che tutto sarà avvenuto. Se mi ricorderai come un vile per non aver combattuto fino all’ultimo e non aver ostentato le mie convinzioni, come Olimpio. Oppure se mi immaginerai come un martire per essere morto difendendo i libri. Se penserai una di queste due cose sarai comunque in errore. Non sono un vigliacco, ma, se non riuscirò a salvarmi la vita, come sembra, sarà per pura sfortuna. Mia sfortuna. Per questo ho paura e, in questo momento di paura, mi preoccupo come una fanciulla della considerazione che la mia figlia amatissima potrà avere di me un giorno. C’è veramente un dio dentro l’uomo, che lo sospinge, se, nella sua miseria, è comunque destinato ad elevarsi alla divinità. Ce n’è perfino in Teodosio che deve accanirsi contro qualche vecchio sacerdote come Olimpio, contro dei rotoli di papiro, contro le parole che vi sono scritte sopra, per giocare all’imperatore. C’è ne è in Ambrogio, che lo consiglia per il meglio, povera anima che non ha saputo trovare nessuna sistemazione migliore in questa vita per le sue inquietudini. C’è un dio perfino in Teofilo, Ipatia, certo ben nascosto dietro gli strati di cieca ignoranza e pazzia, di sordida invidia che gli rendono gialla la pelle. Ce ne è, e sarà uno in tutti gli uomini che conoscerai. Nei discepoli che ti ameranno e tradiranno, nei criminali che ti odieranno e uccideranno.
[4] Tutto quello che succede ha il sapore della farsa assurda. Di una farsa in cui i folli si arrogano lo scettro della verità per percuotervi gli innocenti. Eppure, se non ne fossimo coinvolti, leggeremmo questa farsa come un racconto, che ci mette paura o fa ridere, e godremmo nella lettura come chi ravvisa un piano nello scrittore che lo ha redatto. Non ti chiedo di accettare tutto questo per fede, ma per ragionamento, come ti ho sempre insegnato. Di leggere tutto questo come una storia con il suo inizio, e la sua fine.
[5] Perfino al sofista ebreo in nome di cui questa gente perpetra questi delitti non sfuggiva, forse, che ogni sua parola è rivolta a tanto male. Eppure, per spirito di verità, per amore di bene, o per comprensione dell’essere, non gli sfuggiva neanche di doverla dire. Almeno così ragiona il mio caro Zeev, che è giudeo, e che comprende a pieno un linguaggio che a noi può sembrare rozzo o astruso. E che morirà insieme a me per salvare libri a lui estranei.
[6] Allora, leggi tutto come una storia e cerca di capirne il finale nella minuzia del suo significato. Pan è morto. Ma per il governo degli uomini un dio vale l’altro. Lo sa bene l’imperatore Teodosio che, per avere più saldo nelle proprie mani il potere che gli è tanto caro, quello del grande Impero Romano, ha regalato la sua investitura di Pontefice Massimo al capo dei cristiani. E i cristiani, nel loro fervore di rivolta, nella loro sete di virtù e verità, sono docili all’ubbidienza come pochi. Sono come bambini nell’età della crescita che tanto più si rivoltano al padre, tanto più si destinano a diventare ubbidienti del prossimo più ricco, più potente e più forte. Lo sa bene Teodosio che annette al consiglio del proprio governo uomini come quell’Ambrogio di Milano, che è arrivato ad occuparsi di cose sacre non sa nemmeno lui come.
[7] Dicono che, dopo aver arrancato nella vita politica, e magari aver tanto penato nel sospetto di aver deluso suo padre, come capita a tanti di questi grandi uomini, si sia ritrovato in mezzo alla contesa di due sette cristiane, una detta degli ariani e l’altra degli ortodossi, e di esserne uscito, con la spada e la mazza, con la nomina di vescovo. E lui, per non sapere né leggere, né scrivere, dopo qualche tentennamento, dopo aver pensato che non era questo che aveva cercato per tanto tempo, accortosi che il potere è potere qualunque sia la nomenclatura con cui lo si designa, ha acconsentito a farsi vescovo e da vescovo ad esercitare questo potere, con la spada e la mazza, contro tutti i suoi nemici. Dicono che si è perfino dovuto mettere a studiare i testi cristiani che, da buon romano, gli saranno sembrati noiosissimi. Povero uomo. Forse se ha deciso di uccidere tutti i pagani, come ci chiamano i cristiani, di bruciare tutti i libri, di distruggere tutti i santuari e i nostri giochi, non è solo per la volontà, sconfitti noi, di asservire tutte le coscienze degli uomini con la paura e l’ignoranza. Forse sono quelle ore di noioso e terribile studio che hanno trasformato la sua baldanza da picchiatore romano in odio puro. Oppure, puoi leggerla anche così: Teodosio ha veramente avuto paura di morire e si è convertito alla parole che gli davano la più compiacente speranza di sopravvivenza. Tutto il nostro dolore è causa di un uomo che non sa morire e che, per paura della morte, uccide. Nella lettura di questa farsa potresti, in verità, trascurare anche questi personaggi lontani. Forse, se fossimo governati dal migliore degli uomini, nulla impedirebbe ancora al mondo che persone come il buon vescovo Teofilo vogliano esercitare il loro odio verso quello che non capiscono, temono od invidiano. E, figlia mia, se Teofilo ti sembra sentina di ogni malvagità, abbi allora cura di tenerti lontana, se puoi, dalle mire di suo nipote, Cirillo. Egli è più triste del deserto che ci circonda. Se questa storia si potrebbe ridurre all’invidia di Teofilo nei miei confronti, la storia potrebbe proseguire, con maggiore dramma, con la bramosia morbosa, la gelosia e l’invidia furiosa di Cirillo nei tuoi confronti. Non so cosa ispiri a quel ragazzo con i tuoi modi, ma temo che potrà sublimare sentimenti tanto funesti non prima di averti fatto del male.
[8] Come vedi puoi leggere questa storia in tanti modi. La concupiscenza di uno, l’invidia di un altro, la malattia del corpo di un imperatore, l’incapacità di un giovane governatore milanese, la brama di potere di tutti.  Oppure in un solo modo. La paura.
[9] Ma c’è anche un altro modo ancora di leggere. Modo per il quale ti prego di fare affidamento ancor più alle facoltà della tua mente, tanto più se le mie possano sembrarti parole di un pazzo. Dopo aver ricevuto le nefaste confidenze oniriche di Olimpio, l’altro giorno, ho scrutato il cielo, e ho visto i corvi. I corvi che da anni studio, esaminandone il volo e catalogandone le figure con rigore per capirne il linguaggio che esprime vaticini. Ho visto i corvi, e i corvi, dapprima volando fitti come la schiera di un esercito, poi separandosi l’uno dagli altri come per una violenta incursione, si sono dunque riuniti, e hanno volato, come fossero un unico essere dalla forma di una serpente che si mangia la coda. Poi si sono nuovamente separati, e si sono poggiati su una cupola, con compostezza. In silenzio. La quieta della lotta. L’inizio dalla fine nell’infinito ricorrersi degli elementi che contengono elementi che contengono elementi, ed in ogni elemento sono tutti gli elementi, e tutti sono uno. Come si può distruggere una cosa che è? Come si può distruggere questa lettera, anche se qualcuno vorrà bruciarla? Distruggere è uno dei modi del creatore per conservare, forse. Per arrivare all’unità, del resto, bisogna saper ben dividere. E, nell’eucarestia di certi culti, non si canta lo smembramento degli iniziati? Così, come fanno i corvi, le parole, i pensieri, la verità, la sapienza che domani, domani l’altro al massimo, spariranno, spariranno per ricomporsi in altri voli e figure e immagini, con altri nomi, parole, e aspetti, per essere sempre se stessi. Io pure morirò per essere me stesso, in maniera tale che il Teone matematico faccia ancora matematica, il Teone che adora e inorgoglisce per sua figlia sia ancora padre, il Teone vanitoso e goffo diventi un pavone ed una gallina. Infine che il Teone che amava inanellarsi i suoi bei capelli rossi diventi il fuoco di una sera in un umile focolare. E lo stesso è per te, per la tua matematica, per la tua intelligenza, per il tuo amore per l’insegnamento e le scienze. Ma anche per la tua rigidezza, che diventerà colonna per bei palazzi, per il tuo spirito di giustizia, che diventerà bilancia in un mercato e, perfino per il tuo sciocco desiderio di rinunciare ai piaceri della carne per dedicarti alla scienza. Diventerà la fissazione di qualche strano culto e cadrà nel dimenticatoio. Prima o poi. E così sarà per Cirillo, per gli avanzi di galera che accoglie e nutre nel suo convento e che ti uccideranno con orribile crudeltà, strappandoti pelle e carne brano a brano, figlia mia, mia figlia, come vorrei prendere tutto questo su di me, colpo su colpo, ferita su ferita, ma semplicemente questo non è.
[10] E questo non è, perché non permetterebbe all’essere di essere se stesso, e ci comporteremmo da sciocchi non a impedire che tutto sia, giacché non lo possiamo, ma nel desiderare di impedirlo più del necessario. Ma penso che tu se, ancora non lo sai, lo saprai ben presto e meglio di me, quando avrai finito di esplorare le vie che da qualsiasi punto portano alla stesa vetta. Per questo non trascurare mai nessuna prospettiva, sia che essa ti sembri ingannevole come un sogno, come ti è parso il mio lavoro sui corvi, sia che ti sembri troppo leggera, come può essere una poesia. Allo stesso modo non dare mai peso a niente, anche se ti si presenta sotto una luce luminosa, come la matematica e l’astronomia. Per il resto, adoperati per essere più felice che puoi e, se vuoi, fai tesoro dei pochi consigli che ho sparso nella mia vita. Li avrei raccolti con piacere tutti, ma forse è stato fin troppo il tempo che mi sono concesso redigendo questa lettera. Abbiamo ancora troppi papiri da nascondere e cercare di salvare prima che, domani stesso forse, vengano a trovarli e bruciarli e bruciare noi con loro.
Con la distruzione della Biblioteca di Alessandria del 21 agosto 391 d. C. andarono distrutti oltre settemila papiri, tra cui, forse, anche questa lettera. Nella sua lunga storia la Biblioteca, tesoro della sapienza umana, è andata distrutta più volte. Questa fu l’ultima e la definitiva. L’imperatore Teodosio, dopo aver promulgato una serie di editti volti a svellere alle sue radici la cultura politeista, gnostica, platonica, e all’interno del cristianesimo stesso, ad eliminare i troppo poco politicamente docili ariani, avrebbe consegnato nelle mani di un cattolicesimo ben consolidato un avvenire di guerre fratricide e insensatezze varie. La biblioteca fu bruciata, ufficialmente, perché annessa al culto del tempio di Serapide, di cui Olimpio era sacerdote. Teone, aiutato dall’israelita Zeev e dalla figlia Ipatia, cercò di salvare i volumi dell’istituzione presa d’assalto dai monaci di Teofilo e di suo nipote Cirillo. Nonché dalle guardie imperiali. Ipatia fu l’unica dei tre a salvarsi per trovare una morte orribile molti anni più tardi su commissione di Cirillo ed esecuzione di un simpatico gruppo di monaci tagliagole del monastero della montagna della Nitria, nel deserto di San Marco. Cirillo, in seguito, verrà fatto santo, anche grazie alla sua speculazione sulla verginità della Madonna, alla base del relativo dogma. In fondo aveva ragione Teone, che il buon uomo avrebbe trovato il modo di sublimare la propria concupiscenza nei confronti di Ipatia, vergine per la scienza, solo dopo averle fatto molto male.

Massimiliano Di Mino, Pier Paolo Di Mino, Marco Saura

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