giovedì 9 giugno 2011

IL PICCOLO MICHAUX #4

EDITORIALE



Ancora sulla letteratura popolare: perché leggere Liala quando si può amare?; perché Sanguineti quando ci si può divertire?


Possiamo riprendere il discorso dove l’avevamo interrotto. Dico riguardo alla possibilità del tutto platonica di essere liberamente un popolo, e non un pubblico. Possiamo addirittura riprenderlo non da dove lo avevamo interrotto noi, ma da dove lo ha interrotto Gramsci. Con tutti i rischi che questo comporta: Gramsci, per natura, tende a essere fatto prigioniero dai nemici e a essere tradito dai compagni. Del resto chi fa un discorso attorno al carattere essenziale delle cose pare essere perennemente esposto alle fatiche dell’avanguardia: gli interrogativi più semplici, nella loro spiazzante evidenza, diventano all’orecchio della buona gente tanto fastidiosi da doverli percepire come astrusi. Se, per fare un esempio, Gramsci si domanda come mai in Italia non sia mai esistita una letteratura popolare d’arte (un Conrad, uno Stevenson, un Dostoevskij, insomma), facile che poi ti risponda che questo avviene perché la letteratura italiana è l’espressione, mai del tutto disinteressata, delle aspirazioni di una casta rimasta intatta dal medioevo fino ai nostri giorni e che, con conseguente richiamo al medioevo, si definisce borghese. Una casta chiusa, nota Gramsci, alla quale, a patto di sposarne le prospettive, è possibile un irrisorio accesso da parte di esponenti degli strati sociali più bassi. Di qui la nostra letteratura, che intrattiene con il popolo (inteso, in senso null’affatto platonico, come una materia informa da plasmare a piacimento) un rapporto che oscilla con rigore filologico dal paternalistico al patronale. Lo scrittore italiano scrive per intrattenere e distrarre il suo pubblico; per educarlo, convertirlo ed esornarlo; per decorare il proprio e altrui tempo: tutta la vasta gamma, al dunque, che va dai leziosi giochi da bon savant  di un Sanguineti fino ai vezzosi sentimentalismi di una Liala.
    Indubbiamente una letteratura popolare, che intenda il popolo come una collettività di libere persone, deve sposare prospettive del tutto diverse. Prospettive originarie (per questo, magari, percepite come originali) che presumano che l’uomo sia tale nel dialogo con l’altro uomo e che, quindi, la letteratura sia quella felice coincidenza che trovi, per un tratto, uniti un uomo che sta provando piacere a raccontare con un altro che, da questo piacere, trae un’esperienza aperta per la propria vita: un’esperienza aperta che non ci rende edotti su nulla, né tantomeno ci offre piacere minori (perché leggere Liala quando si può amare?; perché Sanguineti quando ci si può divertire?); ma ci propone l’incontro inebriante con la forza di un carattere, con la natura viva delle cose. Senza dubbio si può dire che non è, oggi, impresa da poco percepire l’essenza delle cose, la vita, se, già un migliaio di anni fa, un Bernardo Silvestre (tanto per fare un solo nome) cominciava a nutrire qualche preoccupazione davanti all’atrofizzazione progressiva delle facoltà umane preposte a questa percezione: davanti al declinare dell’uomo in quanto umano nell’uomo in quanto essere razionale, ragionevole: in quanto ragioniere. Dà conto di questo inceppamento gnoseologico, ancora di recente, Konrad Lorenz quando osserva come l’uomo moderno, ragionando per categorie coscienziosamente chiuse, ragionevolmente ordinate, merceologicamente utili, si preclude la visione essenziale delle cose. Lorenz ci offre come motivo di stupore la constatazione  che siamo, per esempio, ormai privi della capacità di vedere i nessi che corrono fra anima e corpo. Un’incapacità generata dalla nostra necessità di valutare i processi di cui vive il corpo e quelli di cui vive l’anima in maniera separata; separata a tal punto da mostrare realtà discordanti. Per fortuna, a nostra salvaguardia, si danno, in verità, occasioni nelle quali questo nesso rimane evidente: se qualcuno ti dà un buon cazzotto in faccia, i rapporti (non necessariamente causali o gerarchici; più facilmente coincidenti) fra paura, rabbia, reazione, irrigidimento dei muscoli, afflusso del sangue al volto, e via dicendo, ci si offrono spontanei e chiari.
   L’esempio è valido, perché, tornando più strettamente sull’argomento, una letteratura popolare deve avere la stessa evidenza di un buon cazzotto; deve assumersi la responsabilità filosofica di praticare con violenza l’enfasi. Deve far ridere sguaiatamente, come fa ridere Rabelais, con tutto il corpo, affinché torni credibile la sua avventurosa geografia; deve farci piangere, spremerci come un limone, per trovare il nostro succo; farci avventurare per vedere fino a dove arriva l’anima; aprirci all’incredibile (darsi allo stupore, quindi alla filosofia: a quel ramo del fantastico, direbbe Borges); mettere orrore (da lì inizia la saggezza, mi pare); restituirci attraverso le solite, mai avvenute, che sempre avvengono, avventure epiche dell’anima alla nostra umanità. Non sono gli strumenti che mancano all’impresa: le parole con cui dire l’umano. E bisognerebbe ancora parlare di altri strumenti: delle immagini, per esempio. Ma questo la prossima volta. 
Pier Paolo Di Mino
 
Biblioteca essenziale

Valerio Gentili
Bastardi senza storia
Castelvecchi

“Le tre frecce, con la punta orientata verso il basso da destra verso sinistra, stavano a significare infatti una precisa volontà di potenza: schiacciare quelle forze che, per i socialdemocratici, minacciavano la Repubblica.”
    Tre frecce con la punta orientata verso il basso illuminano via dei Volsci a Roma, sono l’icona che vuole rappresentare un continuum storico, un legame indissolubile tra i “Bastardi senza storia” del combattentismo progressista e le sottoculture politicizzate del proletariato giovanile.
    La storia è essenzialmente scrittura, la si correda di memoria e bandiere, di gesti e monumenti, di libri, quelli che l’accademia partorisce spesso in maniera indebita, dimenticando le persone, i gruppi, il sangue che ha irrorato le battaglie più dure.
    Talvolta questo accade perché la dissertazione storiografica non concede, come spesso fa la letteratura, spazio ai sentimenti e ai gesti puri, ma attraversa come un treno i binari sterili dei fatti cronologici.
    Altre volte c’è un’operazione più subdola, c’è un’opera scientifica di rimozione, serve a sedare la sete di libertà e di sangue del Popolo, a farlo stare al suo posto, a non permettere a quelle tre frecce luminose di venir fuori e risorgere sul selciato romano.
   E’ proprio contro questa opera di rimozione storiografica che si pone il saggio di Valerio Gentili, Bastardi senza storia, riprendendo le fila di un discorso sviluppato nei precedenti lavori storiografici dell’autore, analizza gli innumerevoli movimenti di matrice socialcomunista che ricorsero alle armi per rispondere colpo su colpo alle aggressioni nazifasciste. Un’azione pericolosa, spesso avversa all’ordine democratico; un’azione che venne presto vanificata e depotenziata dalle istituzioni, impaurite da una simile forza in grado di imprimere una svolta epocale alla lotta di classe.
   Ma non è solo questo. L’autore accende altri interrogativi primigeni: l’interpretazione del Mito delle Trincee tra le due guerre è necessariamente univoca? L’imprinting dannunziano, il mito vitalistico della ginnastica rivoluzionaria, i dialoghi mistici, le marce, la bandiera nera, i teschi, gli allori, furono parte di un immaginifico da ricondurre unicamente alle formazioni della destra europea? Questi interrogativi ricollegano allora il lavoro storiografico di Gentili alla sua militanza quotidiana, alla volontà di voler svuotare, con la forza che solo un combattente possiede, la grande macchina propagandistica dei movimenti destrorsi, dei contenuti, di tutte quelle icone, che sono da anni appiccicate lì, un poco stranite, vittime di una grande opera di appropriazione indebita.
    Letta in quest’ottica l’indagine storiografica di Gentili si collega pienamente alla narrazione letteraria dei fratelli Di Mino in Fiume di tenebra. Anche nel romanzo di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino i protagonisti sono questi orfani della storia: non burocrati e funzionari di partito, ma semplici militanti di base, giovani ribelli: soldati che dopo aver difeso la Patria mordendo il fango delle trincee di tutta Europa si ritrovarono gettati in una pace fatta soltanto di ingiustizia sociale e miseria.
    La storia diviene così una cifra oscura, complessa, su cui indagare ancora a fondo, partendo proprio dall’epopea di quegli uomini che si opposero strenuamente ai fascismi attraverso un’intensa attività di contro-violenza, fisica, verbale e ideale.
Luca Moretti



Cercas Javier
Soldati di Salamina
Guanda


Tutto si potrebbe raccontare con uno sguardo. Meglio, tutto il racconto nasce e prende le mosse da uno sguardo. Fugace. Intenso. Difficile da descrivere, pesante da sostenere com’è pesante la storia, non quella ufficiale che sciorina  dati e date, ma quella fatta dagli uomini. Tutto ha inizio da uno sguardo che infuoca la narrazione e crea il mito: un gerarca franchista è in fuga nel bosco inseguito dalle pallottole del plotone d'esecuzione, si lascia cadere tra il fango. La fine si avvicina, arriva un repubblicano con il fucile spianato. I due si guardano, pochi secondi, poco tempo per pensare. Il soldato abbassa il fucile, grida ai compagni che lì non c’e proprio nessuno e si allontana.
Rafael Sanchez Mazas, fondatore e ideologo della La Falange Española, è salvo, lo è per mano del suo nemico. Diventato ministro di Franco, scrive la sua storia, ma un buco nero, un mistero non permette di chiudere il libro dei ricordi.
Chi era quel soldato? Perché non ha sparato?
Su questo interrogativo Javier Cercas ha costruito il suo Soldati di Salamina, un romanzo coraggioso, la cui narrazione procede per frammenti e intuizioni, come una vera e propria ricerca. L’autore gioca brillantemente tra il genere documentaristico e la fiction per poter  girare attorno alla storia, osservarla da un punto di vista privilegiato, descrivere questa materia di fuoco senza innaffiarla di intenzioni, non cercando e non ponendosi neanche il problema di scrivere un libro politicamente corretto, che insegua la riconciliazione nazionale o ancor peggio un revisionismo, oramai promosso a proficuo genere letterario.
 L’alter ego dello scrittore, alle prese con problemi lavorativi e dubbi esistenziali decide di indagare e mettersi in mezzo alle ragioni ancora doloranti della storia della sua nazione. Dovrà entrare nella psicologia di Mazas, scrittore a sua volta, e in seguito in quella del soldato sconosciuto. L’indagine non porta a niente, ma in soccorso del protagonista, a fargli da mentore e aiutante, arriva niente meno che Roberto Bolaño, che, nell’insolita veste di personaggio, mette al servizio dell’amico la sua esperienza di ‘detective selvaggio’ fornendogli l’intuizione giusta.
Le fila della ricerca portano a un ospizio nella provincia francese, qui l’alter ego di Cercas trova Miralles, ora un anziano signore protagonista di mille battaglie, convinto che le guerre si fanno e non si raccontano. Non smentisce, né conferma di essere lui il soldato che ha lasciato in vita il falangista. La storia, quella dei lustrini prima e delle poltrone poi, non necessita di racconti personali o di eroi sconosciuti. Nessuno, in fondo, vuole ricordare più quell’epoca, nessuno vuole ricordare la morte.
“Tutti morti. Tutti. Nessuno di loro ha provato le cose buone della vita: nessuno di loro ha avuto una donna solo per lui, nessuno ha conosciuto la meraviglia di avere un figlio e che suo figlio a 3-4 anni si mettesse nel suo letto tra sua moglie e lui, una domenica mattina, in una stanza con molto sole...”. Sogna i suoi compagni il vecchio Miralles  e si sente in colpa perché lui è  ancora vivo: “ Nessuno si ricorda di loro, sa?” – dice il soldato sconosciuto – “Nessuno si ricorda neanche perché sono morti, e, meno di tutti, quelli per cui hanno lottato. Non ci sarà mai nessuna via miserabile di nessun paese miserabile di nessuna merda di Paese che porterà il nome di qualcuno di loro. Lo capisce?” .
La verità non ha mai risanato alcuna ferita e anche il lettore più curioso comprenderà che il soldato che ha dato vita a questa narrazione è meglio rimanga sconosciuto. La Storia con la S maiuscola attiene ai fatti, la storia quella vera, quella degli uomini, eroi ed antieroi, invece, non può esser colta se non con la bellezza sparata in mezzo agli occhi.
Massimiliano Di Mino



Daniele Cambioso, Ettore Maggi
L'ombra del Destino

Rusconi libri
L’ombra del destino è, nella sua essenza, il libro che si legge tutto di un fiato. Parlo di essenza perché il fascino di questo romanzo, il suo avvincerci fino all’ultima parola, non risiede solo, e principalmente, nel dispiego di una tecnica retorica ben congegnata.
   Certo, leggiamo questa storia con l’ansia di vedere come finisce, presi dalle sue vicende come in un’allucinazione, in virtù di una ragionabile serie di strumenti diegetici adoperati con immodesta maestria.
   L’ombra del destino, possiamo congetturare subito, ci cattura grazie alle strategie messe in atto dal genere letterario in cui si iscrive ottimamente: la spy story. Il romanzo ci fa vivere l’avventura (anzi, ci fa vivere nel destino) di Stefano e Giulio che, giovani studenti, (siamo negli anni Settanta) vengono arrestati per una loro presunta appartenenza alle brigate rosse. Viene loro offerta la possibilità di non subire i danni di un simile sospetto: devono accettare di essere coartati al servizio delle forze dell’ordine. Sedici anni dopo, nel 1995, sullo sfondo di una complicata trama che unisce i quadri del neofascismo a quelli dei servizi segreti italiani e delle diverse forze militari e politiche in lotta nella dilaniata Jugoslavia, la loro scelta forzata (una scelta del destino) conosce il suo tragico esito finale. Una spy story delle migliori, dunque, ma anche (dal momento che la storia dei generi letterari è una storia di lotte e invasioni), un notevole western. Ma fin d’ora si potrebbe dire qualcosa di più: il libro parla di destino, della sua necessaria struttura ontologica; del fatto che si presenta all’uomo sempre come nemesi. Questo riconduce inevitabilmente il romanzo all’epica e alla tragedia classica.
    Ancora: questa storia ci attrae perché ci parla da vicino. Niente come la narrazione storica, o dei grandi personaggi del passato, ammalia la nostra fantasia. Il passato, potremmo dire, è la lingua dell’anima. In questo romanzo la storia, quella nostra, e quella recente, ci si offre come fatta della migliore materia del sogno. Dovrei dire dell’incubo. E così il lettore può godere con estasiato terrore dell’esibizione dei fatti più o meno occulti che determinano la sua realtà quotidiana. Uno spettacolo, c’è da crederlo, che non lascia indifferenti.
   Infine, (ultimo non per importanza) il lettore che si incatena a queste vicende è certamente vittima di una speciale capacità mimetica nella resa delle scene e dei personaggi. Personaggi conosciuti per mezzo di un vischioso intreccio di analisi psicologica (sappiamo tutto di loro: storia, pensieri, rapporti famigliari) e di rivelazione mitologica (gli autori ce la danno sfacciatamente: una cavaliere senza macchia e senza paura è Giulio; Stefano è l’eroe imperfetto: un re Artù e un sir Galvano, per intenderci). Una vera e propria invasione della fantasia che impone al lettore un’identificazione totale.
   Bene, questi tre elementi (la perfetta esecuzione di un romanzo d’avventura, quella di un racconto storico, e la disanima impeccabile di due personaggi umani) cadrebbero nel vuoto se a sostenerli non fosse la struttura ontologica, filosofica del dettato narrativo.
   In altri termini, lo spettacolo davanti al quale ci mettono, senza possibilità di riparo, gli autori è quello della configurazione del cosmo.
   È come nei film di Hitchcock: possiamo vederli e rivederli in continuazione non perché siano ottimi gialli, ma perché scoprono trame gnostiche, vedantiche. Allo stesso modo, possiamo leggere e rileggere L’ombra del destino perché ci rivela il mondo dal punto di vista del nostro destino individuale; ci rivela come il nostro destino individuale sia soggetto a un meccanismo tanto complesso quanto fatale in cui la necessità e il caso giocano di sponda (giocano con noi di sponda) per il mantenimento del meccanismo medesimo. È la stessa allucinante teologia che godiamo nell’improbabile Arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon. Il meccanismo qui rappresentato nella versione pecoreccia, dadaista caligoliana del potere così come è concepito nel nostro bel paese, dove l’esercizio esornativo del potere è perentoriamente un esercizio contro qualcuno; è un gioca al rincaro con il caso e l’arbitrio; una negazione della civiltà esaltata a criterio civile o, meglio, a intrattenimento di corte.
    Ogni italiano può essere l’oggetto (lo zimbello) di questo intrattenimento, come Stefano e Giulio. Per questo leggiamo la loro storia con il fiato sospeso.
Pier Paolo Di Mino



Trattato del ribelle
Ernst Junger
Editore Adelphi 


Io sono un numero, anzi una percentuale.
Quale sia il mio vero nome, la città in cui vivo, chi siano i miei genitori, se ho una moglie, dei figli e quale il mio lavoro non ha importanza.
Io sono il due percento.
Forse non sarà chiaro, ma è semplice da capire.
Quando il plebiscito è mascherato da libere elezioni, la dittatura deve dimostrare, oltre ad avere una maggioranza schiacciante, anche che il consenso sia basato sulla libera scelta. Il cento per cento delle preferenze risulterebbe dannoso. Il nemico deve essere sì ridicolizzato, ma deve pur sempre esistere: la dittatura per poter sopravvivere ne ha bisogno, per incutere odio e quindi terrore. Il novanta per cento sarebbe un risultato troppo modesto, un uomo su dieci sarebbe un possibile nemico,  le masse non devono poter pensare questo. Il novantotto per cento invece oltre a essere tollerabile è perfino vantaggioso: il due per cento di contrari restanti, infatti, conferiscono attendibilità al resto dei votanti, sancendo la loro libertà d’espressione, e creando il nemico contro cui combattere. I buoni sono la stragrande maggioranza, ma non sono al sicuro, né immuni dal pericolo. Nessuno vorrà far parte di quel due percento, anzi per non correre rischi si farà vedere mentre vota, e al seggio ci si potrebbe imbattere in simpatici siparietti come questo:  “non capisco perché non la si consegni aperta” e il funzionario compiacente  “davvero non si può”.
Ecco io sono quel due per cento.
 Ma nonostante abbia scelto con ferma intenzione di votare no, di essere pronto a immolarmi per affermare i miei diritti, sono parte del sistema, anzi ne sono cardine, senza di me la maggioranza non avrebbe senso.
 Ti fanno credere di essere una pecora nera di essere isolato, che la scelta sia votare per la pace e la libertà, quale mostro voterebbe contro? Ma sono certo che non sia così.
Le dittature non sono solo pericolose, ma esse stesse sono in costante pericolo, poiché l’uso della forza genera sempre ostilità, e la presenza di minoranze pronte a tutto costituisce una minaccia. Se le file della polizia s’ingrossano nonostante l’indiscutibile maggioranza, è perché se la situazione precipita, ben poco il potere potrà fare affidamento a quel novantotto per cento. Quanto più il numero dei favorevoli si avvicina al cento per cento, tanto più aumenta il numero delle persone sospette, essendo probabile che i dissidenti non facciano più parte delle statistiche, ma che siano divenuti invisibili, i controlli dovranno essere fatti casa per casa, e gli stessi controllori potrebbero essere nemici dell’ordine costituito.
 Tracciando quel segno ho fatto ciò che il mio nemico mi ha chiesto di fare, sono caduto nella trappola. Avrei dovuto scrivere non nel posto scelto dal sistema, la scheda elettorale, ma da un’altra parte, sul un muro di una strada percorsa da decine di passanti, su un manifesto, ancor meglio sulla fiancata di un treno che percorre più volte la città, e arriva anche nelle altre città, tutti avrebbero capito, e sarebbe stato enormemente più efficace. Due semplici lettere N O, anzi un’unica lettera R, come Raduno, Riflessione, Riscossa, Rivolta, Rabbia, Resistenza. O meglio Ribelle.
Io sono il due per cento e sono un poeta.
Gioacchino Lonobile


Santi, eroi e scrittori



Luciano Bianciardi. Scrittore. Soprattutto: eroe italiano.

«Luciano Bianciardi muore a Milano il 14 novembre 1971. Prima di morire d’alcol, dice a chi gli sta vicino “sopportatemi, duro ancora poco”.»
Finiva così un pezzo che ho scritto sette o otto anni fa. In quegli anni vivevo in una casa umida con le persiane marroni. Studiavo e lavoravo. Mangiavo quando qualcuno mi invitava a cena. Avevo i capelli lunghi, fumavo una sostanza stupefacente psicotropa e registravo su vhs tutti i film polacchi che passavano alle 4 di notte su Rai3. Da allora mi porto dietro una fotografia di Bianciardi, che è  la prima cosa che appendo in camera quando mi trasferisco in una nuova casa.
La fotografia è in bianco e nero: Bianciardi siede su una panchina, ha le mani infilate nelle tasche del pastrano, il bavero alzato, i capelli tagliati da poco, lo sguardo obliquo rispetto all’obiettivo; sotto la panchina uno strato di foglie secche; Bianciardi ha gli occhi aperti e non è ancora morto.
Non pubblicai quell’articolo, né lo riciclerò in queste note. Perché una biografia si può scrivere in molti modi. Molti ce ne sono, ma per il Bianciardi è diverso. Quando scrivi del Bianciardi devi stare attento. Ti mordi la lingua e cerchi di non cedere alla rabbia. Ti convinci che parlarne è meglio che tacere. Ti ricordi di quando ti sentivi solo (tu, i vhs e i capelli lunghi) e leggevi la sua incazzatura solenne. Ti ricordi che Luciano ti faceva ridere e incazzare allo stesso tempo. Ti vengono in mente le risposte che dava ai lettori del Guerin Sportivo. Ti vengono in mente i suoi libri.
Quindi cresci, leggi, e crescendo come scrittore ti capita spesso di incontrare altri scrittori, di parlarci. Molti scrittori non conoscono Bianciardi, sanno chi era, ma non l’hanno mai letto. Altri lo conoscono, e sono suoi nipoti proprio come te, e sono cresciuti con le grappe gialle al Bar Jamaica, hanno chiesto escatollo quando nessuno raddoppiava, si sono asciugati le guance leggendo La vita agra. Quando si ritrovano, i nipoti del Bianciardi, parlano di lui. Ognuno dice la sua, e tutti, tornati a casa, lo rileggono.
Nel 1969 i i tipi di Rizzoli danno alle stampe “Aprire il fuoco!”, riedito qualche anno fa da ExCogita e infine, nel 2008, da Stampa Alternativa, con il titolo leggermente censurato: “Le cinque giornate”. L’ultimo libro prima di morire. Prima di chiudere i conti con Grosseto, con l’industria culturale che ha odiato tirandole calci in faccia e sulla carta, ricambiati con il successo, con quel participio passato del verbo succedere che amava ripetere ad ogni intervista.
Bianciardi muore solo. Gli amici non capiscono perché negli ultimi anni si sia ridotto a bere in continuazione, ne hanno paura. Maria, la sua compagna, la donna che ha condiviso con lui un figlio, la vita misera delle traduzioni a tredici lire la riga, lo lascia, se ne va con il bambino. L’uomo che ci ha tradotto Saul Bellow, Norman Mailer, William Faulkner, Henry Miller, quell’uomo crepa come un anarchico in agonia. Luciano Bianciardi, ricorda questo nome, è importante. Parlane ai tuoi figli, leggilo.
«E fu miracolo veramente, ma insieme tremendo equivoco, che costerà agli italiani cento anni di dolorosissima storia: la guerra dei briganti, la sommossa del ’66, l’immagine radicata nel popolo dello stato oppressore, quello che esige le tasse e chiama a far la guerra, l’analfabetismo mai sconfitto, mezzo milione di emigranti ogni anno lasceranno questa “porca Italia”, l’unità più volte messa in pericolo ad ogni crisi nazionale, il razzismo interno che sempre ha serpeggiato sottile nel costume nostro, la magia, la miseria.» Così scrive alla fine di “Da Quarto a Torino”, pubblicato nel 1960. Così inizia, con amarezza, il percorso di Bianciardi nella storia del Risorgimento italiano. Amava gli ideali del Risorgimento - la nostra mancata rivoluzione - e gli uomini e le donne che si ostinarono a crederci. Tutta l’opera di Bianciardi si delinea come la struttura di un grande romanzo popolare, con un narratore che ha visto gli eventi che andrà a raccontare, un narratore sconfitto, amaro.
Per esempio: il capezzolo dell’idea bianciardina si inturgidisce con gli eventi raccontati ne La battaglia soda, romanzo pubblicato nel ’64 da Rizzoli; Bianciardi impersona un ex garibaldino, il narratore, che a quarantadue anni, ferito dal fallimento della vita, scrive le sue memorie; i fatti partono dalla presa di Capua (1° novembre 1860) e arrivano fino alla disfatta di Custoza (24 giugno 1866).
Nel romanzo gli eventi sono autentici e i personaggi esistiti riesumati con la lingua. Quelli inventati, invece, sono i personaggi minori, arruolati tra i suoi amici. Ci sono Ripa di Meana, Ormanno Foraboschi, Franco Nebbia, Giampaolo Dossena.
In questa epopea nazionale raccontata dal Bianciardi emerge l’energia democratica di Garibaldi, repressa dal conservatorismo monarchico, clericale, poi democristiano.
Un storia del Risorgimento tradito, di questo si tratta. L’autore cerca di far risorgere l’innocenza sociale di una parte d’Italia, la parte degli uomini che hanno creduto in un paese, un’idea di paese lontano dalla stupidità e dalla corruzione.
Un’idea che lo ucciderà.
Ed è tempo di parlare di Aprire il fuoco, l’ultimo romanzo del Bianciardi.
Il tempo è quello giusto, che ci siano Andreotti o Berlusconi al potere. Il tempo è quello giusto perché Bianciardi, in Aprire il fuoco, sfodera la delusione per le rivoluzioni italiane sedate, per i partigiani epurati dopo la seconda guerra mondiale, per il sessantotto affetto da “infantilismo tattico”, per l’odore di morto che emanano la DC e i suoi emissari. Spostando i moti di Milano, Le Cinque Giornate, nel 1959, Bianciardi comprime nello stesso tracciato spazio-temporale eroi risorgimentali e personaggi della contemporaneità. E come nel celebre “Ma l’amor mio non muore”, lo scrittore maremmano consiglia strategie pratiche per la rivoluzione: «Lasciate perdere broletti, palazzi del governo e anche le università, ragazzi, pensate alle banche».
Oggi, 2 giugno 2011, i poteri si incontreranno sotto il segno della Repubblica. I lavoratori saranno al lago, al mare o a pranzo dai suoceri. Gli uomini e le donne per cui Bianciardi ha scritto sanno che non c’è nulla da festeggiare. La Repubblica, per come la intendiamo noi, deve ancora venire. Nell’attesa leggete Bianciardi.
Marco Lupo



Francesco d’Assisi. Santo, eroe e scrittore.

Per la precisione poeta, attività per la quale è divenuto patrono d’Italia, paese essenzialmente poetico, se per poesia si intende l’ambizione senza freno a esprimere la propria interiorità, i propri desideri, le proprie voglie, il proprio io più vero: e, a riprova di questa evidenza, giova il caso, statistiche alla mano, di ricordare che l’Italia è la nazione con il maggior numero di flatulenze espresse in ascensore dell’intero globo terraqueo.
    In realtà in Francesco d’Assisi l’eroe, il santo e il poeta si confondono. Gioverà comunque all’esposizione tentare dei nessi di carattere causale tra le diverse attività praticate dal grande immaginifico.
    All’inizio, certamente, c’è stata la poesia. Francesco Giovanni di Bordone, infatti, fu precocissimo lettore dei romanzi epici e cortesi della sua epoca. Fu questa una letteratura nella quale si condensarono le migliori metafore e i più puntuali ritrovati del pensiero occidentale: ancora sotto l’egida platonica, il lettore poteva ritrovarvi intera quella speculazione che, all’ombra dei grandi monoteismi, ci ha permesso, malgré nous, di arrivare quasi sani e quasi salvi fino ad oggi. È vero che un certo gusto per l’oscurità, che era un debito appello all’intelligenza e alla curiosità del lettore, poteva confondere sulle intenzioni di questa letteratura, al punto che molte di queste storie ai più sono sembrate risolversi in un semplice elenco di sorde imprese di disinteressata violenza (mazzolate e ammazzatine) o resoconti di stravaganze erotiche (alcune niente male: ed è con disappunto che, fra le categorie in cui Youjizz si pregia di esporre il proprio campionario, non si trovi l’asag: la pratica di rimanere nudi tutta la notte insieme alla persona amata senza nemmeno guardarsi; possibilmente con una spada in mezzo che faccia da divisorio). Ad ogni modo, Francesco fu tra quelli che fraintese le proprie letture, così che, giunta l’età della maturità, vistosi sprovvisto di quella prestanza fisica che fa gagliardi per l’amore, decise di diventare un cavaliere e di dedicarsi all’arte della guerra. Partì con alcuni compaesani per mazzolare a dovere i perugini, prese dei sonori schiaffoni e fu ficcato in gattabuia. Molti eccepiscono che il seguito fu dovuto alla gran paura presa. Questo, va da sé, non sminuisce nulla: il timore è all’origine della sapienza. Senza Pan ci è preclusa la saggezza che, invece, per quello che vale (intera, insomma, nel suo valore) fu data al grande uomo. All’improvviso tutte le metafore e le speculazioni di cui sopra gli furono terribilmente chiare: la poesia si impossessò di lui. Una poesia di carattere radicale, di quelle dinamitarde (e certamente D’annunzio smise di dichiararsi, e cominciò a sentirsi per davvero francescano quando, atto abissale di poesia, conquistò Fiume).
    Siamo italiani, Francesco è il nostro patrono e conosciamo tutti le sue storie. Inutile ripetere il catalogo delle sue imprese di provocatoria bellezza, animisticamente disinibite: dadaiste, direbbe uno. Quel suo parlare con le bestie, lasciando per inteso che, non essendo pazzo, comunque non gli sembrò mai che gli rispondessero; quel suo partire per la terra degli infedeli per dire loro che non aveva nessun motivo per convertirli; quel suo forzare tutti i limiti della natura dell’uomo per affermare che ci sono, e sono belli. Conosciamo Francesco e sappiamo, con quel Maimonide che ha voluto fare da guida a noi perplessi sulla via che mena dritto alla conoscenza dell’unico dio, che è stato il più grande e pericoloso degli eretici, di quelli che fanno una scelta, e vi rimangono fedeli. D’amore, del resto, si vive; e, se siamo vivi, scampati alle nostre flatulenze, alle nostre asfittiche passioni e voglie, alla nostra fumosa interiorità da esprimere, è perché qualcosa ci lega ancora a una terra, sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.     
Pier Paolo Di Mino




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