giovedì 23 dicembre 2010

su La poesia e lo spirito - recensione di Michele Lupo


Recensione di Michele Lupo
   1920. La Grande Guerra è finita da un pezzo, ma non negli umori dei più. Il capitano Italo Serra, nel cui cuore di soldato è imprigionato un buio che “non c’entra niente con tutti i discorsi inventati da chi li aveva mandati al massacro”, è immerso in una caligine della coscienza che lo fa sentire perduto, strappato all’uomo che pensava di essere, invischiato in una tormenta che gli fa temere di essere impazzito – e forse lo è.
A quest’uomo (del cui stordimento profondo si potrebbe sospettare che sia l’effetto traumatico di una rivelazione, quel genere di rivelazione che gli uomini non possono tollerare se non a costo della vita stessa), a quest’uomo cui la guerra ha lasciato in consegna non una disfatta delle armi ma un esito ben più catastrofico, un irrecuperabile crollo del senso, qualcuno decide di affidare una missione cruciale: uccidere il Comandante che ha trasformato Fiume in un puttanaio.
La “Città di Vita”, l’irredenta (l’irridente) zona franca che è l’oggetto della contesa, innervosisce la diplomazia ed è un problema per lo sprovveduto governo italiano; a Roma temono che l’insubordinazione metta a repentaglio il già precario equilibrio della nazione. I soldati già disobbedienti minacciano di lì di marciare sulla capitale, Mussolini nicchia da italiano verace: già democristiano; per non dire che lassù se ne vedono di tutti i colori: arditi, avventurieri, granatieri, anarchici, poeti veri e tarocchi, pansessuali e femmine disinvoltissime e maschi con maschi e nudisti e cocainomani e feste da mane a sera… vano l’elenco perché la natura dell’esperimento (nel caso, l’esperimento politico-esistenziale che fu Fiume) – trattandosi di faccende umane molto umane sebbene cifrate nell’oltranza che mira al sorpassamento di sé – è di essere una condizione temporanea e il suo esito per definizione indecidibile).
A Roma non sanno bene che fare e l’unica cosa divertente è lo spettacolo del presidente Nitti che ha comprato un cane, lo ha chiamato Fiume e lo piglia a calci in culo. Nel frattempo, lassù, il soldato Serra si avvicina umbratile alla città olocausta, gravato da una nevrastenia debilitante che scarta la percezione dei fatti verso un altrove ambiguo, sfuggente non appena ti sembra di averlo afferrato (te lettore e lui il soldato arrischiato all’impresa).
Il narratore che si nasconde dietro i nomi di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino, un trickster un po’ pensoso e un po’ burlone, segue l’avventura del sonnambulo involta in una nebbia spessa e implacabile, sì che il suo obiettivo, ancorché esplicito, riesce per paradosso a rimanere un mistero: di proteiforme consistenza, va precisato, ché il poeta partito sessant’anni prima dall’Abruzzo per sedurre e coglionare il mondo mischiando bigiotteria e pietre preziose (in arte e in vita va da sé, senza distinguere perché quella era la natura del gioco, o perché non ne era capace), D’Annunzio insomma, nel mirino di una congiura internazionale, si risolve in un’immagine inafferrabile che costringe il protagonista a fare i conti con se stesso – con tutta la grammatica valoriale che lo ha tenuto in piedi fino a quel punto della vita (Serra non può conoscere Lo zen e il tiro con l’arco, che Eugen Herrigel scriverà solo nel 1948, ma i rebus implicati sono simili).
Dunque, in quella specie di teatro a cielo aperto che è la città, in cui gli autori trascinano sornioni il lettore con un andamento ipnotico, con dei tratti da poème en prose, il capitano avvicina piano il centro di irradiazione di tutta la storia – che è un po’ la storia del mondo vista dalla parte di un sogno androgino, di un’aspirazione al superamento dell’intero repertorio dell’umanamente codificato, di tutta la nomenclatura del genere e del numero, delle mappe ideologiche riconosciute, in direzione dell’indifferenziato, forse, del primordiale biologico – e lì, nell’intrico di passioni e deliri e utopie e cazzate che è Fiume, dopo aver incontrato e sproloquiato e banchettato più volte con alcuni dei suoi numi tutelari, il tenente Guido Keller (con il quale rischia di perdersi per sempre portandosi alla bocca la pianta grazie alla quale “tutto sarebbe divenuto informe e fluttuante. Un luogo inabitabile (in cui) le case avrebbero smesso di essere alte e scure su strade dritte e sicure”…), o lo scrittore Comisso che discetta con competenza sulle misure dell’uccello, e aver intuito che nei loro riti cultuali, nei sogni di quei pazzi si cela un enigma che ha da fare con la bellezza (il rovescio dell’indifferenziato biologico), lì, prossimo alla meta, al colpo di pistola che dovrebbe far fuori D’Annunzio, comprende che sta mirando al mondo stesso come possibilità. Ma quella possibilità è sogno – vive di febbri vaghezze dismisure –, quella possibilità forse è solo teatro, e Serra fallisce (se al sogno del capitano e a quello della voce narrante aggiungiamo quello del lettore, forse il colpo di pistola sarebbe pleonastico, perché in un teatro dei sogni è a una maschera che spari).
Così l’uomo D’Annunzio si salva: ma Fiume, nel “Natale di Sangue” di novant’anni fa, viene sgomberata a forza dall’esercito inviato da Giolitti. Così termina la sua storia “sperimentale”. E finisce l’avventura del poeta-guerriero – ciò che aveva sognato di essere. Non è colpa degli autori se Kurtz può avere il volto di Marlon Brando e il rachitico D’Annunzio suggerisce invece, italianamente, un’apertura verso il grottesco. Che nel libro è però tenuto a bada grazie soprattutto a una scrittura controllata, attentissima (che al massimo ogni tanto si concede qualche preziosismo). E’ che se a Kurtz riesce, prima della resa dei conti, di capitalizzare una volta per tutte, con un controllo ferreo e spietato, il suo dominio in un’architettura assoluta (penso al Kurtz asiatico di Apocalipse now), è anche vero che paga in termini poetici ciò che guadagna in termini “politici”: Kurtz i libri li legge, D’Annunzio, politicamente ondivago, li scrive. Qui il suo sogno – stante la radicalità diremmo oggi progressista della costituzione fiumana – è tanto libertario quanto letterario, libertario in quanto letterario. Perciò stesso, destinato a soccombere.
E veniamo ai rinvii empirici, sul “vero” esperimento sociale e politico che fu la “Città di Vita”. I Di Mino non volevano scrivere un romanzo storico, ma hanno studiato a fondo la materia, sanno che la congerie di letture sull’argomento tiene le estreme, utilizzata a destra e a manca quale prova paradigmatica: prodromo della presa di forza fascista fino a Casa Pound da una parte, utopia piratesca e freak nel modello TAZ di Hakim Bey, dall’altra. D’Annunzio stesso, felicitato da Lenin e Gramsci, pensò Fiume come un “comunismo senza dittatura”, ritoccò la sua costituzione, dai tratti radicali, scritta dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris; sappiamo che a Fiume però c’era di tutto, che ci furono momenti ma anche aspettative diverse, che la città era anche il ricettacolo di cascami nazionalisti, di reduci guerrafondai. Era un caos insomma che poteva andare in direzioni diverse; da esso però (e credo che agli autori – nonostante sia chiara la propensione per un coté libertario della vicenda – questo interessasse più di ogni altra cosa) qualcuno cercò di desumere una forma, ossia, un’idea di vita in cui la bellezza fosse un fine.
Perciò, se ciò che conta è la possibilità, il rimanere aperti alle sue declinazioni, forse nel racconto mitico che è Fiume di Tenebra il cuore non sta nei fatti verosimili ivi contenuti (com’è del romanzo storico), ma nel sogno di ciò che a partire dalla Carta del Quarnaro, Fiume avrebbe potuto essere.
Poi è vero, “l’uomo è il proprio fallimento”, è costretto ad ammettere il capitano – e alla fine della storia, ciò vale per lui come per D’Annunzio. Ma il fallimento, quando non va a caccia di redenzioni, è bellissimo.

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