giovedì 25 novembre 2010

su MANGIALIBRI; Angelo Piero Cappello intervista i Di Mino

 
Intervista a
Massimiliano e Pier Paolo Di Mino
articolo di Angelo Piero Cappello

 
   Resto sorpreso quando, prima di cominciare con le domande vere e proprie, trovo davanti a me due persone estremamente preparate, agguerrite, direi, se questo termine non fosse un po’ equivoco. Due scrittori di calibro, due intellettuali simpatici e stravaganti che a me sembrano, erroneamente, un poco avventurieri. Bastano le prime battute, invece, ed ho la conferma di una solida preparazione e di una scrittura, come si dice in gergo, sorvegliatissima. Dialogare con loro è stato un piacere vero: s'è capito subito che si tratta solo di un primo round.

Cominciare un romanzo (come fate voi con Fiume di tenebra)con la frase: "questa storia potrebbe non essere mai accaduta a nessuno…" è certamente un “patto narrativo” con il lettore che, mentre assicura che il romanzo è frutto di fantasia, mette l’autore (o gli autori) in salvo da eventuali errori o riferimenti a cose e persone realmente esistite. E nel vostro caso, come la mettiamo con la persona Gabriele d’Annunzio, a partire da quel cognome sbagliato (che in realtà era scritto con la “d” minuscola)?

Quella frase assicura che questa è la versione fantastica di un fatto reale.  Intratteniamo con la realtà un rapporto attraverso la memoria, e non è del tutto facile separare il campo semantico che chiude in un medesimo cerchio la memoria e l’immaginazione. Il nostro non è un romanzo storico, ma la visione di un personaggio, il capitano Serra, che affronta l’avventura di perdere in maniera radicale tutto, e di diventare Nessuno. Malerba in Itaca per sempre ha suggerito un’identità tra Odisseo e Omero. Noi pure abbiamo voluto suggerire, distrattamente, un’identità fra la storia e la sua narrazione, entrambe di nessuno. Nel nostro racconto, ormai, la tragedia è consumata, e ne rimane solo il sogno. Per questo motivo lo studio approfondito dell’epoca ci ha consentito di adoperare tutte le inesattezze necessarie a riprodurre il racconto di qualcuno che quei fatti li ha vissuti: i personaggi si vantano di quello che hanno fatto e detto; e dicono quelle cose, perché se lo ricordano così. È pieno di tortuosi raggiri, come quello del padre di D’Annunzio, che si firmava d’Annunzio per prendere in anticipo un titolo di nobiltà che, come spesso succede quando uno fa certi patti con la realtà, verrà accredito alla famiglia solo in seguito. 

Fiume, per la stessa ammissione di alcuni storici, è stata un generoso tentativo di realizzare una sorta di “comune”, fondata su aspirazioni libertarie ed egalitarie, su valori di uguaglianza e libertà (la Carta del Carnaro è stata considerata una Costituzione avanzatissima in fatto di riconoscimento di diritti e identità etniche e religiose), su valori di corporativismo e sindacalismo rivoluzionario per un “lavoro produttivo”, che in tempi propedeutici al fascismo non fu fatto trascurabile. Perché ne avete stravolto l’identità?

Non pensiamo di averne stravolto l’identità. Abbiamo parlato del suo tramonto, e della tenebra che quattro personaggi tragici devono assumere per sopravvivere al declino del loro sogno. Keller e Comisso sono stati, nella realtà storica, i promotori e l’anima culturale e spirituale dell’impresa. Vissero quei mesi in una furia oltranzista e romantica che li lasciò inappagati anche davanti alle conquiste più radicali della Reggenza del Carnaro. Volevano riformare l’esercito, eliminandone le gerarchie; con Kochnitszky avevano sognato una Lega dei popoli oppressi che lo stesso De Ambris trovò prematura; hanno sognato un uomo diverso che, secondo loro, D’Annunzio stentava a capire e realizzare. Basta leggere “Il porto dell’amore”, per constatare come Comisso sentisse insoddisfatto il suo bisogno di eccesso. Finito il sogno, questo oltranzismo è divenuto, nella nostra narrazione, una forma di disperazione. Comisso vi è passato indenne, diventando un narratore. Ma Keller, per esempio, dopo aver vagabondato alcuni anni alla ricerca di una nuova Fiume, è morto tragicamente, incapace di redimersi a qualsiasi quotidiano.

Scrittura e cinema. Un certo ‘andamento’ della narrazione, che privilegia il parlato e le didascalie secche e definite, fa pensare all’altro vostro linguaggio: il cinema. Fiume di tenebra sarà anche un film?
Esiste questo progetto. Ma è piuttosto prematuro parlarne, data anche la situazione in cui versa il cinema italiano.

Vorrei tornare a d’Annunzio. Nel romanzo la sua figura è fortemente penalizzata, ridotta a quella di un vecchio delirante, troppo preso da sé e dalle proprie elucubrazioni poetiche per essere minimamente credibile. Quali fonti biografiche avete usato e perché?

D’Annunzio, nel racconto, coincide con la sua “invenzione”. D’annunzio è Fiume, e noi raccontiamo una Fiume che oramai volge alla tenebra. Noi abbiamo visto la storia dal punto di vista degli oltranzisti romantici, di quei legionari di “sinistra” che sperimentarono una contro società, e anche una contro vita. Quelli che si sono prestati più volentieri alla tragedia. Kochnitszky, costretto ad andarsene dopo il fallimento del suo progetto di una lega dei popoli oppressi, sarà il primo a subire la vertigine causata da quell’angosciante vuoto che fu il riadattarsi al quotidiano dopo Fiume (ne parla in questi termini lui), e racconta di un D’Annunzio che è in egual misura un grande uomo e un uomo patetico. Tutte le biografie di Keller raccontano del suo tentativo di rapire la Baccara, la donna del Comandante, accusata di essere la Circe che tratteneva Odisseo, e di impedire a D’Annunzio di portare a termine la sua missione rivoluzionaria. In generale diverse fonti accreditano la sua instabilità umorale.  Per rendere le luci e le ombre del D’Annunzio fiumano abbiamo tratto di peso dal corpus dei suoi scritti molte sue dichiarazioni,  inclinandole in senso patetico.

Altri romanzi, in passato, hanno trovato la loro ambientazione storica nella città di Fiume prima del “Natale di sangue”. Ne avete tenuto conto? In che modo?
 
Abbiamo letto soprattutto Comisso. Per il resto abbiamo tratto la materia esclusivamente dalle fonti documentarie.



La scrittura, il linguaggio di questo romanzo appare estremamente denso, ricco di toni forti, perfino, a  tratti, di una visionarietà violenta. Che tipo di lavoro avete compiuto sull’impalcatura linguistica del vostro libro? 

L’idea è quella di una narrazione epica e, quindi, popolare. Un soldato torna a casa e racconta la sua avventura nel villaggio. Deve farsi sentire da tutti, deve intrattenerli ed esaltarli. Usa le immagini più vive, che corrispondono alle parole più lussuose e forti. Inoltre, nel nostro caso, il soldato torna a casa per convincere tutti ad andarsene, e gli parla di qualcosa di talmente sconosciuto che le sue parole, anche le più semplici (amore, patria, amicizia), diventano parole visionarie che probabilmente gli ascoltatori sono costretti a valutare con angoscia funebre.





Avete l’abitudine di scrivere e riscrivere stesure diverse o gettate sul pc quel che viene e poi ne limate il risultato?

Dopo un lavoro preparatorio piuttosto lungo ed elaborato, cominciamo a scrivere separatamente, con costanti e ravvicinate revisioni comuni. Poi procediamo per stesure. 


Come si scrive un romanzo in due? Chi fa cosa e chi scrive cosa?

Il nostro è un lavoro mimetico, più simile ad un lavoro attoriale. Viviamo per mesi in simbiosi con i personaggi. Conosciamo tutto quello che è successo, anche quello che non racconteremo. Poi affrontiamo la fatica deliziosa della scrittura. Ma è difficile anche per noi analizzare quello che non è un metodo. Una profonda unione e una lunga collaborazione, a questo si riduce il nostro protocollo lavorativo.


Per i progetti futuri, e se ce ne sono ditemeli, rimarrete in coppia?

Abbiamo in cantiere un paio di libri che, con questo su Fiume, fanno un progetto in comune.

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