martedì 9 novembre 2010

Intervista Pura Lana di vetro- cultura che non infeltrisce

Fiume di Tenebra - Massimiliano e Pier Paolo Di Mino - Castelvecchi

Il “Fiume” in questione è quello che oggi corrisponde alla città croata di Rijeka e la tenebra è forse l’alone di un altro pezzo di storia che il nostro paese ha deciso di tenere in silenzio. Ci viene alla mente quando qui abbiamo parlato dell’epoca della quarta sponda e della colonizzazone della Libia e qui abbiamo anche parlato della carneficina di piazza Oberdan a Trieste, tutte storie che si è cercato di nascondere. Oggi  Massimiliano e Pier Paolo di Mino hanno deciso di raccontarci quella della città di Stato di Fiume sotto la reggenza di Gabriele D’Annunzio. Insomma, parliamo di “Fiume di tenebra” dato da poco alle stampe per Castelvecchi.
La storia
La storia che segnaliamo oggi mi ci ricorda i grandi romanzi del nord america, alla Irving e il suo “Le regole della casa del sidro”, ricche di particolari, elaganti e di ambientazione. Non è un romanzo storico (anche i suoi autori affermano il contrario) ma si ha tutta la sensazione di esserci dentro, per raccontare di una terra meravigliosa, quella su cui sorge la città di Fiume, che subito dopo la fine della prima guerra mondiale, a seguito di una serie di negoziati viene dichiarata Città Stato indipendente sia dal Regno di Jugoslavia che quello italiano. E’ una storia che parla di un’insurrezione con un poeta a capo della rivolta e un manipolo di anarchici, avventurieri e arditi pronti ad accorrere per sostenere le rivendicazioni (italiane di ricongiungere la città al regno d’Italia) che parlano di giustizia e di libertà.
Per molti questo gesto è un vero e proprio inno alla libertà, di un popolo che decide per le sue sorti mentre per il governo italiano, già scocciato dalla perdita della città,  non è altro che un nuovo spiacevole evento che deve essere nascosto e stroncato. Ci sono due vie di fatto, una ufficiale ed una meno. In attesa che si compia la prima, ovvero che l’esercito dei Savoia compia il suo dovere e cerchi le vie ufficiali della guerra per ricongiungere la città al Regno d’Italia, una congiura internazionale ordisce un piano per attentare alla vita di quel poeta condottiero, Gabriele D’Annunzio.
La mano che viene scelta per questa esecuzione è quella di Italo Serra, un ufficiale specializzato in missioni coperte: uno dei tanti soldati che non possono e non vogliono tornare a casa dopo l’esaltazione tragica che il conflitto ha instillato nelle menti di una generazione di combattenti. E nel mentre che ci si avvicina alla fine della reggenza dannunziana, di quando il generale Caviglia arrivera a chiudere la loro indipendenza, il capitolo degli eroi da spazio a quello degli uomini, in cui Serra, forse ammaliato dallo scrittore Giovanni Comisso, dal tenente Guido Keller e della bella Ada scoprirà come tutto ciò in cui ha creduto fino a quel momento sia soltanto un inganno, di coloro che agiscono per cambiare le cose e lasciarle come sono.
Sono pagine che forse vogliono restituire qualcosa ad un personaggio storico fortemente mistificato.
Una storia che ci racconta ancora un pezzo di Italia che si è perso in cerca di chiarezza non solo ad un personaggio discusso ma anche ad un periodo storico che gli anni hanno avvolto attorno all’indifferenza. Esattamente come tutte le popolazioni del nostro est che hanno fatto tanto anche per la nostra libertà italiana e sono morte nel più totale silenzio.
Abbiamo raggiunto gli autori per alcune domande e ne siamo usciti con un interessante ritratto che parte dalla pagina scritta, arriva al cinema e molto altro sulla vita e la passione. Ecco l’intervista integrale.
L’intervista
Partiamo dalla storia, e quindi facciamo la domanda di rito, come nasce? Visto il vostro passato cinematografico, ha tutta l’impressione di essere una storia che presto vedremo sugli schermi cinematografici. E’ vero?
Massimiliano: Il romanzo nasce dall’interesse, dall’amore per i momenti estremi della storia, quando per un uomo tutto diventa possibile e per il narratore plausibile. Non c’è dubbio che “Fiume di tenebra” si presterebbe all’adattamento cinematografico, ma è presto per dirlo e, conoscendo i tempi delle produzioni, forse non sarà una cosa immediata.
Pier Paolo: Avevamo in mente una storia, e ci siamo accorti che a Fiume era successa realmente. Tutto è nato, probabilmente, con una forte impressione visiva di quei fatti, di quei personaggi, di quelle atmosfere, di quegli ambienti, di quelle scene. È stato divertente farne un racconto, ma è anche stato inevitabile, durante la stesura di questo, pensare a una sua versione cinematografica. Io coltivo con costanza la superstizione, ma si può almeno confessare che stiamo lavorando insieme a un gruppo di sceneggiatori attorno all’intenzione di fare diventare “Fiume di tenebra” un film.
Leggendo la vicenda si ha la sensazione di un intreccio elegante in cui la vicenda si mescola bene con i dati storici, personaggi veri ed inventati. Ho trovato sia sul vostro blog allestito per il volume che su wikipedia che avete curato anche il soggetto di “Fine pena mai” di Davide Barletti e Lorenzo Conte. Sono le storie vere il vostro soggetto ideale?
M: tra le altre cose, ci siamo occupati di cinema e televisione, firmando anche il soggetto e la sceneggiatura di “Fine pena mia”. Vere o inventate, nelle storie ci interessa seguire il nostro personaggio nella sua discesa agli inferi. Scrivendo ci accorgiamo se questo è in grado di risalire, preferisce le fiamme o, ancora, è fatalmente chiamato a un altro destino.
PP: Se dovessi cercare il fantastico fuori dalla realtà mi sembrerebbe di dare sfogo ad una futile ridondanza della fantasia. La realtà ha una struttura mitologica che aspetta solo di essere scolpita in un racconto. Quello che mi preme è di non abusare della retorica del realismo. In quanto retorica, il realismo ha i suoi pregi: abbassa le difese cognitive del lettore, lo distrae, diverte, appassiona. è un buon modo di introdurre uno spettatore ad una vicenda. Quando uno legge Tolstoj o Zola, ne esce tranquillizzato che tutto è andato come doveva andare. I poveri sono poveri, e non si scappa.
Avete anche dichiarato che con questa storia volete restituire ad un personaggio storico una sorta di maltolto. Che cosa manca alla storia di D’Annunzio?
M: Gabriele D’Annunzio è un patrimonio comune, non credo a chi vuole appropriarsi di un pensiero, soprattutto decontestualizzandolo. Rimane che il poeta è ancora oggi una figura attuale, dalle mille sfaccettature e difficile da ingabbiare, lui che tanti ne ha inventati, in un motto o in uno slogan. Manca di liberarlo, D’Annunzio!
PP D’Annunzio è diventato un santino della letteratura italiana. Era un uomo patetico nel senso completo della parola, eroe e cafone, selvaggio ed esteta, aristocratico e popolare. La modernità lo ha fatto diventare un personaggio ridicolo. Del resto, dopo di lui si doveva pure campare. I futuristi sono stati costretti a vendere il loro dannunzianesimo in una confezione adatta alla nuova teologia industriale. Campana, almeno, è stato un dannunziano che si è limitato a prendersela con rabbia con il suo modello. Montale non è stato timido: ha preso atto del Vate, e ha inforcato un’altra strada. È la cosa migliore, perché D’Annunzio era realmente inimitabile. Lo era metricamente e, quindi, nella vita. Non è un sofisma letterario. Gabriele d’Annunzio non sapeva distinguere tra anima e corpo, e nemmeno tra vita e poesia. Decide di proclamare lo Stato fiumano, il suo sogno epico e lirico, “La Reggenza italiana del Carnaro” perché il tutto suona dentro il registro di un endecasillabo.
E che cosa manca alla storia del nostro estremo nord est, una zona geografica che pare sia stata nascosta in una penombra imbarazzante, in cui sono stati nascosti gli eventi di quegli italiani che sono stati sradicati alla loro terra o obbligati a rinnegare le loro origini?
M: La domanda, alla quale è difficile dare risposta, è: cosa è venuto a mancare poi? Il Risorgimento, dal quale è uscito questo malmenato paese, si è fatto strada con due grida : Roma! e Venezia!
PP: Quella di D’Annunzio fu un’impresa patriottica che, per ultima, ebbe il senso e lo spirito che ha informato il patriottismo risorgimentale. Un grande movimento democratico e progressista, certo, strutturato piuttosto attorno a un ideale che ad una ideologia. Combattere, e procombere leopardianamente per la Patria, significava lottare per dare terra, giustizia, istruzione, libertà al popolo che si riconosceva in quella Patria. Non solo, chi combatteva per una Patria, combatteva per tutte le altre. Garibaldi si è dichiarato volentieri disposto a guerreggiare contro l’Italia se questa avesse aggredito un altro paese. La successiva vicenda fiumana ha ben poco a che vedere con l’impresa di D’Annunzio. Il patriottismo, dopo la prima guerra mondiale, cede il passo al nazionalismo e all’imperialismo. Molte popolazioni, da una parte e dell’altra, sono rimaste vittima di astratte e interessate questioni etniche. Oggi vediamo sviluppati in maniera spettacolare meccanismi del genere, quando si rieditano scaduti conflitti religiosi e culturali.
Ho trovato una frase tanto interessante quanto attuale, e dice:”In Italia si cambia per lasciare tutto com’è”, pare una frase così vecchia e così presente. Che ne pensate?
M: Attualissima, e purtroppo ci appartiene. Più che una frase, è l’obbiettivo della cosiddetta “Strategia della tensione”, di cui nell’Italia dei sotterfugi e delle trame ci siamo dimostrati maestri non meno di altri paesi, come la Grecia, che hanno conosciuto recenti dittature.
PP: Più o meno come nel Gattopardo. Oggi dovremmo leggere frasi come queste non come un’esternazione pessimista, ma come una constatazione. Tommaso Pincio ultimamente, in un bellissimo articolo, definiva l’atteggiamento degli italiani nei confronti dell’Italia paragonandolo alla paura reverenziale e fatalista che i protagonisti di Lost hanno verso l’isola. Dovremmo pensare che, se tutto, finora, è rimasto come è da sempre, è solo per darci l’occasione di cambiare.
Cinema e letteratura, qual’è il genere e il mezzo che trovate maggiormente congeniale? Il pagina di un romanzo o della poesia (riferito a “La storia aurea” di Pier Paolo) o ancora la sceneggiatura?
M: Sono parenti così vicini eppure così lontani, ma la libertà del romanzo è introvabile nel mezzo cinematografico. Utilizzo la parola come motore per accendere l’immaginazione del lettore. La stesura di una pagina, a due o quattro mani, è un’alchimia difficilmente ripetibile.
PP: Ci piace raccontare storie. Quello che vorrei di più per me, sarebbe farlo con una grossa bacchetta, puntando su un quadro dipinto e raccontando la storia illustrata nell’immagine. In una fiera, con gli occhi bistrati per impressionare il pubblico. Il cinema è un’approssimazione a questo sogno smodato. Però sono convinto, per una fiducia tutta mia in Vittorini, che gli avverbi e gli aggettivi sono gli strumenti che possono incidere più profondamente di qualsiasi altro nella fantasia delle persone, e quindi nella loro vita. È stato molto divertente per me raccontare una storia attraverso delle liriche prosodicamente sfrontate e sentimentali, discettare a braccio come in un imbonitore in una sagra paesana, filosofare in maniera struggente e viva sfruttando le occasioni vertiginose della paratassi.
C’è un nuovo lavoro in cantiere?
M: Più di uno, ma io mi trincero dietro la mia insanabile scaramanzia, che so non appartiene a Pier Paolo.
PP: Vedi sopra il capitolo superstizione. Possiamo dire, però, che Fiume sta diventando il capitolo di una ideale trilogia. Stiamo lavorando contemporaneamente a una storia che la precede, agli albori dell’unità d’Italia, e a una storia che le succede, e che ha luogo durante la Resistenza.
Passando dallo scritto allo scrivere, raccontateci qualche segreto che vi fa riconoscere che quello che state scrivendo è buono, dedicato a tutti coloro che man mano approcciano la pagina scritta e spesso pensano che quello che stanno scrivendo non abbia mai significato abbastanza.
M: Pur scrivendo insieme la percezione non è mai comune, ma quando comincio a sognare i sogni del nostro personaggio so di essere sulla buona strada. Poi arriva il momento della parodia, quando insieme cominciamo a scherzare e parodiare i nostri personaggi, sappiamo di averli in pugno.
PP: Io comincio ad essere soddisfatto del racconto quando mi accorgo che saprei scriverne la parodia. Insomma, quando posso parlare con i personaggi in confidenza, smorzando in privato le loro tragedie.
E, visto che ci siamo, qualche segreto del vostro lavoro, da come nascono le storie a come si struttura la vostra giornata di lavoro.
M: Lavoriamo singolarmente, ognuno nella propria abitazione. Ci vediamo settimanalmente una o due volte per modificare, tagliare, alzare la voce o semplicemente per andare al bar.
PP: Ogni tanto parliamo di tutte le storie che ci piacerebbe raccontare. Questo avviene a cena. Magari si beve troppo, e il giorno dopo ci siamo scordati tutto. Poi uno dei due, un giorno, arriva, e comincia a parlare in salentino, o a camminare come un granatiere di Sardegna, e, insomma, la storia, a quel punto, è solo da trascrivere.
Quali sono le storie che vi entusiasmano maggiormente? Romanzi prettamente storici o che sono frutto di una lunga documentazione?
M: Fiume di tenebra è ambientato in un contestro storico, ma non è un romanzo storico. Più che la storia siamo interessati a rappresentare un mito, qualcosa di invariabilmente valido. La documentazione lunga e minuziosa, è una preparazione spirituale dello scrittore più che del romanzo.
PP: Quelle in cui c’è tutto da perdere, perché dopo hai solo da guadagnare. Quando troviamo una storia del genere, facciamo bene attenzione a studiarla profondamente. Non facciamo solo un lavoro da storici, ma anche da scenografi. I vestiti e le tazzine del caffè sono fra le cose più importanti da studiare. Accumuliamo tantissimo materiale. Poi nel racconto non utilizziamo nulla. Per noi l’importante è essere stati lì, e raccontare le cose dal vivo. Però la nostra più vivida speranza è che queste storie, pur essendo accadute in un dato momento, siano percepite come accadute sempre.
Dalle informazioni che sono riuscito a raccogliere lavorate da tanto in coppia. Su, una cosa bella dell’altro ed una che sopportate meno della vostra collaborazione.
M: Più che da tanto, sempre. Lavoriamo, dicevo, anche andando al bar. Pier Paolo non si ferma mai, ma crede di dirti le cose e invece le ha solamente pensate. Quando la Castelvecchi gli ha comunicato l’intenzione di pubblicare Fiume di tenebra, io l’ho scoperto, credo, solamente dopo due o tre giorni.
PP: Massimiliano rivela talvolta una natura calvinista che invita al rigore, che ti sprona ad essere migliore. Mi sembra di uscire da teatro con lui. Per lo stesso motivo, però, diventa intollerante quando parlo ad alta voce senza dire nulla, quando cerco di raggirarlo e quando ripeto in continuazione sempre le stesse cose. È che mi piace tantissimo farlo.
Quindi? Qual è alla fine il segreto del lavorare assieme?
M: La scrittura è fatta di suggestioni, il difficile è restituirle al lettore: scrivendo in due è più facile suggestionarsi; autosuggestionarsi.
PP: Il divertimento. E sapere che questo divertimento corrisponde ad un impegno che si arrovella attorno ad un ideale.
Comunicateci un po’ di passione, che cosa significa per voi scrivere? Personalmente, individualmente.
M: L’immagine che mi viene è scavare. Uno dei miei ultimi autori preferiti diceva che per scrivere è necessario saper ficcare la testa nel buio.
PP: I motivi per cui uno si mette a raccontare storie sono tanti. Si può pure arrivare a ideologizzarli. In realtà mi piace dire menzogne, raggirare e ripetere sempre le stesse cose. Mi piace pure essere contestato per questo motivo. Mi piace intrattenere le persone. Dare qualcosa a un lettore per andarmene un po’ via con lui. Temo, infine, che nemmeno io sono in grado di distinguere l’arte dalla vita. Ma disporrei di questa fantasia anche se facessi il meccanico.
Qual è il messaggio dentro alle vostre storie? C’è un denominatore comune alla vostro lavoro?
M: Riproponendo, cercando di fare mito, sicuramente ci sono dei valori eterni che vorremmo proporre. Ma il mito non parla mai direttamente.
PP: No, nessun messaggio. Credo nella natura implicitamente filosofica della narrazione.
C’è anche qualche progetto che viene portato avanti individualmente? Quale?
M: per il momento sono molto concentrato su un progetto comune, per il resto, nuovamente come nella risposta 7, mi trincero dietro la mia insanabile scaramanzia.
PP: Sì, preparo con pigrizia un altro racconto in versi.
Avete seguito il fenomeno dell’editoria digitale? Che idea vi siete fatti? State facendo già qualche cosa in merito o avete bisogno di un consulto (mio) in merito?
M: Il futuro mi crea diffidenza, ho bisogno dei miei tempi. Temo che un giorno mi dicano che il mio amore per i libri e la polvere sia valso solo a minare la salute. Ad ogni modo, aspetto un tuo consulto. Me lo potresti stampare?
PP: Io ho bisogno di un consulto.
Come si fa nelle interviste delle iene, c’è qualcosa che avreste voluto dirvi sul lavoro che state portando avanti assieme e non c’è mai stato il tempo?
M: Certamente, Pier Paolo sappi che Giovanni Comisso, (tra i protagonisti del romanzo) avrebbe voluto più bene a me che a te!
PP: Penso di avergli detto tutto. Spero.
Massimiliano, poi quei venti euro Pier Paolo te li ha restituiti o ti ha pagato un abbonamento al bus per tornare a ritagliarti un momento per leggere durante il giorno invece del solo scrivere?
M: Ha pagato gli ultimi aperitivi al bar e stiamo bene così, ma è vero: il tragitto del bus, le soste in bagno e la sera a letto prima di spengere la luce sono i momenti della giornata nei quali mi sento realmente libero di leggere senza sentirmi in colpa.
PP: Però mi devi pagare i sensi di colpa.
Siete felici? Lo sarete?
M: Sono contento, la felicità comunque è in programma.
PP: La felicità? La gente per essere felice si riduce il più delle volte in uno stato pietoso. Preferisco la vita.

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 http://www.puralanadivetro.it/2010/11/03/fiume-di-tenebra-di-mino-intervista-castelvecchi/

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