giovedì 2 aprile 2015

Quando Seneca, Petronio, San Paolo e altri amici INVENTARONO IL CRISTIANESIMO



 Quando Seneca, Petronio, San Paolo e altri amici 
INVENTARONO IL CRISTIANESIMO



Mi ci sono imbattuto per puro caso.
      Io, prima di questa piccola avventura, non avevo mai nemmeno sentito parlare di Costantino Simonidis, che durante il corso del Diciannovesimo secolo è stato un grande falsario di pergamene e papiri greci, e che, subito dopo l’incerta data della sua morte, è finito nel dimenticatoio della storia.    
       (La data incerta sarebbe stata motivo di chissà quante storie apocrife sul personaggio, ma la nostra storia, avida solo di cose certe e vere, ha preferito rendere incerta fino all’oblio l’intera vita di questo uomo a causa dell’incertezza del suo finale).
       Il poco che so di Simonidis a tutt’oggi è che, quando un papiro o una pergamena si dimostrano falsi (e aggiungo con malignità: nonché quando li si vuole dimostrare falsi), si tira fuori il suo nome.
     È quanto fa tale padre Irenée Hausherr nell’opuscolo senza data e senza editore “Les mensonges du Ennemi”.

Dirò ora di come avvenne il ritrovamento fortuito di questo opuscolo.
     La cosa è facile. Il teatro è la Biblioteca di Storia Moderna di Roma. L’attore io, intento ad alcune ricerche (non importa ora dire quali) che mi portano a rovistare fra alcuni faldoni trascurati dall’inventario della biblioteca, complice la felice assenza di qualsiasi custode.
     Insomma, ora di pranzo, gli impiegati che disertano allegramente l’ufficio, io che mi ritrovo solo con questo faldone non catalogato con tre riviste sull’Agro Pontino illustrate da Cambellotti, due giornalini della parrocchia di San Michele Arcangelo a Sermoneta, e questi pochi fogli ingialliti e consunti sopra i quali erano stampati in francese le angosciate invettive di tale padre Hausherr.
      Il resto? Io che colpevolmente rubo l’opuscolo, piegandolo in quattro e infilandomelo in una tasca.
    
Sia chiaro, non mi piace rubare, se non è necessario. E quel furto non lo era.
       Leggendo distrattamente le prime righe di quelle pagine avevo solo trovato il piacere di leggere un francese esasperato: quel francese così tanto francese che hanno taluni, cartesiano al parossismo: una lingua perfetta per la Salpêtrière, insomma.
      E, dunque, nelle poche righe lette da quell’opuscolo avevo scorto i segni certi dell’idiozia grandiloquente, il che di solito mi avrebbe scoraggiato a proseguire nella lettura e non certo incoraggiato a fare un furto. E invece.
    
E invece torno a casa e leggo queste parole infuocate scritte da un uomo che soffre di non so cosa, e scopro che a una certa data (la quale, tirando in ballo Simonidis, si colloca nel tardo Ottocento) circolò la notizia del ritrovamento di un papiro.
      Il papiro era un carteggio. Autori del carteggio erano Seneca, tale Calpurnio Pisone, Petronio, Nerone e San Paolo. Niente di meno.
      “Il carteggio”, scrive l’estensore dell’opuscolo, “ha un unico argomento: l’invenzione del cristianesimo. Sì, insomma, i quattro uomini discutevano e si passavano informazioni, notizie e consigli per inventare con evidenti scopi satanici la figura di un profeta chiamato Cristo. La figura sarebbe stata inventata fondendo diversi miti greci e orientali, mescolando diverse dottrine filosofiche e religiose”.
      Così esordisce questo padre Hausherr, autore dell’opuscolo, per poi proseguire lungo quattro fitte pagine a dimostrare in tutti i modi la falsità di questo ritrovamento.
     Prima di tutto è chiaro che la pergamena è falsa, dice padre Hausherr, perché vi si dice che il cristianesimo sarebbe stato fondato per motivi satanici, e invece il cristianesimo, come dimostra la sua teologia, è antisatanico. Seconda cosa, dire che Gesù non è esistito non è possibile, essendo già stato più volte dimostrato che è esistito. Piuttosto, afferma Hausherr, è dubbia l’esistenza di Petronio, sconosciuto questo tale Calpurnio Pisone, e in passato ci sono stati dubbi perfino su Seneca (dubbi che potrebbero anche essere validi), per non parlare di Nerone il quale è descritto come un mostro, e i mostri non esistono, e, considerando questo, è il minimo dire che il Nerone dei libri di storia non è il vero Nerone, e quindi Nerone è falso (sic): insomma, salvo il buon apostolo Paolo, l’unica persona certamente vera di questa storia è quella accusata di essere falsa: e cioè Gesù.
      Dopo questa breve dimostrazione, padre Hausherr riempie, e per più di una pagina, Satana di gravi insulti, peritandosi di fare una breve storia dei sui addetti, partendo dai baccanali fino ad arrivare alle attività del Ponte d’Oro, una setta che, secondo il buon sacerdote, è stata il committente della falsa pergamena. In preda all’orrore, giunto a questo punto, Hausherr fa partire la denuncia: questo mondo è oggi segretamente guidato da un gran numero di sette devote al maligno, e fra queste la più potente è il Ponte d’Oro. Scopo principale di questa setta è quella di distruggere la Santa Religione. A motivo di ciò, infatti, detta setta satanica avrebbe ordinato a uno dei suoi adepti, Simonidis, noto falsario, di costruire questa testimonianza di malizia e depravazione. Siamo quasi al finale quando, poi, il buon padre Hausherr scaglia diversi anatemi e sul falsario e sulla setta e, in maniera un po’ brusca e non del tutto pertinente, su Carlo Marx, per concludere quindi con dei ringraziamenti a certi uomini di buona volontà che hanno deciso di reagire a tutto questo fondando una associazione pia e benefica che raccoglie gli sforzi dei più grandi intellettuali e industriali e finanzieri della cristianità per combattere il male, come anche hanno dimostrato nel “presente caso di questa falsa pergamena che è una vera bestemmia. (cosa intendeva? Cosa hanno fatto?) Tutti uomini zelanti e attivi, benedetti dal Signore e vivi nel Giuramento fatto a Redinchem” (?)
     Ora, non è che non ho fatto ricerche. Ho cercato di capire cosa  fosse questa setta del Ponte d’Oro: niente. Chi fossero gli zelanti che hanno giurato a Redinchem, che poi sarebbe l’attuale Oosterbeek: ma ad Oosterbeek anche, a parte le sue millenarie vestigia, la sua torre e lo squisito albero di Bildemberg, non ho trovato il minimo segno di congiure contro il male. Ho fatto ricerche su questo padre Hausherr, ma, a parte il fatto che si chiamava come l’autore che trent’anni circa dopo avrebbe pubblicato per il Pontificio Istituto di Studi Orientali di Roma “La méthode d’oraison hésychaste”, niente. Uno sconosciuto totale. Uno sconosciuto tale da pensare che questo opuscolo sia un falso. 
      Cosa del resto facile da pensarsi perché altre notizie su questa presunta falsa pergamena costruita da Simonidis non ce ne sono. Nessuna notizia su questa pergamena, né rovistando nella storia dei ritrovamenti importanti (nel caso sarebbe un ritrovamento piuttosto importante) né fra le vicissitudini di Simonidis. Del resto perché mai questo prete avrebbe dovuto scrivere un falso su un falso? A queste domande non so dare risposte. Cosa rimane, dunque? Rimane a me cercare di ricostruire con mie false supposizioni questa storia che, in qualsiasi modo la metti, è la storia di un falso. È quello che faccio ora qui di seguito:

Il carteggio fra Seneca e San Paolo, Petronio e Calpurnio e Nerone.


Seneca scrive a Petronio.

Ti saluto e auguro ogni bene, Petronio, sebbene non abbia bisogno di altro bene chi, assolti i propri compiti nella gestione delle cose pubbliche, usi il tempo del proprio ozio per dedicarsi alla più alta delle attività umane, la poesia. E tanto più è ricco di quel bene chi, come te, opera per il meglio di tutti sia nella vita pubblica che in quella privata, facendo del tuo lavoro politico un’opera di poesia e della tua poesia un lavoro politico. Sì, Petronio, in te si sommano le virtù del romano antico, onesto e severo, e del pio stoico. Ma forse ti chiedi perché io usi queste lodi al tuo riguardo. Ti rispondo dicendo che una buona notizia corre non meno veloce che una cattiva, anzi. E ne sappiamo noi qualcosa di come si diffonde una buona novella, vero? Ma ora parlerò chiaro: vengo a sapere da poco che stai scrivendo una grande opera che mescola versi e prosa, e che è scritta in quella lingua di popolo che insieme abbiamo sognato. La lingua a venire di un popolo a venire. Bene. La notizia mi lascia così commosso e così curioso che ho dovuto vincere la tua timidezza nel farmi partecipe dei tuoi sforzi letterari con un piccolo crimine. Ho fatto trascrivere da uno schiavo alle tue dipendenze (non ti dirò chi) una piccola parte del tuo componimento e così mi sono visto recapitare la scena in cui quel tuo Trimalcione invita tutti alla sua ultima cena. Che ridere! Ma anche quale intensa trepidazione filosofica e politica offre alla mente la tua satira! Mi complimento con te. Mi complimento per la perfezione e l’arditezza del tuo dettato poetico. Mi complimento per la drammaturgia della scena e la vividezza dei personaggi. Mi complimento per la puntuale critica che ogni singola parola contiene ai mali di questo mondo. Eppure mi chiedo se era opportuno e necessario fare quello che hai fatto. Non bastava alla tua arte aver già partorito una volta un’ultima cena? Bisognava proprio fare di queste tue ultime cene un marchio di fabbrica riconoscibile, che chiunque può riportare al genio di un grande poeta? E che chiunque, dunque, può riconoscere come invenzioni poetiche, anche se non si vorrebbe? 


Petronio a Seneca.

Ti saluto, saggio fra gli uomini più saggi, e non spreco tempo ad augurarti un bene di cui la tua persona dispone in tale misura da emanarne l’eccesso a beneficio di chi ti stia anche semplicemente accanto. Tu sai che non esagero o faccio i miei soliti scherzi amari adoperando queste parole nei tuoi confronti. Ti reputo un maestro, e ti reputerei il mio, se mai un uomo come me può avere un maestro. Quando ho acconsentito che lo schiavo pagato da te per questo innocente crimine, copiasse parte del mio lavoro, ho voluto che proprio quella scena tu leggessi per apprezzare questa finezza: un giorno qualcuno dirà che la buona novella era tanto famosa da essere parodiata nei libri.  A nessuno di certo potrà mai venire in mente che la scena triste e pietosa dell’ultima cena di un dio orientale e la cena grassa e comica di un porco occidentale sono frutto dello stesso autore. Non temere, e apprezza invece quanto ho concepito. Se anche questa nostra creatura non avesse successo; se anche scomparissero tutti i vangeli fatti redigere, un segno dell’esistenza di Gesù detto il Cristo rimarrebbe nella memoria delle cose umane grazie al mio libro di satire. Pensi che sbaglio?


Seneca a Calpurnio Pisone.

Fedele amico, Calpurnio, anche tu hai potuto consultare la lettera di Petronio e il suo componimento, e forse penserai con lui che non sbaglia. Eppure io temo. Io temo la vanità del poeta. Ha voluto mettere la sua firma sulla creazione dell’ultima cena di Gesù detto il Cristo. Non importa, anzi il contrario, quante notizie circolino su questo Gesù, e a nome di chi. Dal giorno in cui, come fanciulli che fanno un dispetto, abbiamo copiato le astruserie ebraiche e le abbiamo mescolate coi segreti di Platone e dei pitagorici e della scuola stoica, divertendoci a farle dire a una figura letteraria che abbiamo fatto camminare sulla remota e misteriosa carta geografica della Palestina, un secolo prima di noi, sono passati ormai quasi dieci anni. E, in questi dieci anni, il nostro divertimento letterario è cresciuto fino a diventare più grande di noi. Conto ormai, provenienti da tutte le province di Roma, un gran numero di vangeli, scritti da chissà chi, ognuno dei quali modifica e amplia la nostra creazione. La nostra creatura è ormai pronta ad essere vera per tutti. Quello che abbiamo inventato noi per nostro arbitrio dieci anni fa, per tutti è stato arbitrio di Dio farlo essere davvero cento anni fa. Sappiamo tutti, quindi, che questo non è più un gioco. Per questo temo la vanità di un poeta, per il quale tutto è sempre un gioco.


Calpurnio Pisone a Seneca.

Ti saluto, Seneca. Io temo con te, ma ben altro. Ti dirò chiaramente che Petronio non mi preoccupa. È un poeta, sì, ma è un poeta che usa la poesia per nobili ideali. Si dà modi disinibiti e fa mostra di essere indifferente a tutto. Fa questo per celare la purezza del suo animo. Conosco per intero il suo libro. È un capolavoro insuperabile. Basterebbe una sola generazione di uomini formati alla lettura della sua opera per cambiare per sempre il mondo. Ma tu sai che non vanno così le cose, e che Petronio, come tutti gli uomini troppo nobili, farà una brutta fine, e che il suo capolavoro verrà bruciato e dimenticato. Piango nel pensare queste cose, ma è così che vanno le cose per chi non sa operare con cautela e opportunità. Come abbiamo fatto sempre noi. Sei tu che me lo insegni: candidi come colombe, prudenti come serpenti. Non temo Petronio, così come non temo che qualcuno possa arrivare a pensare che Gesù Cristo e tutta la sua dottrina siano inventati non si sa a quale fine da chissà chi. Quando tutti credono vera una cosa, il dubbio di uno rinforza in tutti quella verità. Quello che temo, invece, è altro. I miei dubbi, fedele amico, si concentrano su chi debba e come debba usare questa verità. 

Dici bene che è passato del tempo e che la nostra opera è diventata più grande di noi. Eravamo ragazzi quando abbiamo scoperto i segreti che governano questo mondo nella sua più misteriosa struttura, e attraverso gli insegnamenti degli antichi e la pratica sacra e viva dei santi veleni, abbiamo scoperto noi di nuovo come tutti quelli che prima di noi si sono messi sulla via della tradizione, quello che c’è da sapere sulla composizione e sulla natura bugiarda del tutto. Ci sembrò allora, ancora giovani come eravamo, giusto ribellarci alle leggi false e illusorie che ci erano imposte e che ci obbligavano a servire come schiavi limiti che non esistono. Volevamo rivoltare il mondo. Volevamo rivoltarlo politicamente, e nella coscienza degli uomini. La nostra opera poetica, inventare un filosofo che fosse non solo un uomo ma anche un dio che viene a salvare l’uomo inneggiando alla rivolta totale, all’abbattimento dell’autorità imperiale, della proprietà privata e di ogni altra legge conosciuta, ci sembrò esattamente quello che dovevamo fare. Ma questa opera è cresciuta, e siamo cresciuti noi. La nostra stessa opera ci ha indicato la via della nostra maturazione: non basta dire che gli uomini vedono come attraverso uno specchio oscuro, e che tutta l’esistenza è solo una chimera, e che quindi dobbiamo abbattere tutto questo. Bisogna anche aggiungere che, abbattuta una cosa, ne va costruita una migliore in sostituzione. La nostra buona novella in questi anni si è moltiplicati in tanti scritti, in ognuno dei quali sono suggerite discipline e visioni divine e prospettive politiche differenti. Questo vuole da noi il mondo: una nuova visione, e una nuova legge che da questa visione discenda e che sia adatta a governare il mondo. Cristo ci servirà a distruggere l’impero e a costruire una nuova Roma. Cristo è di noi romani.

Lo ribadisco: di noi romani. Ed è per questo che, se temo, io temo quel tuo mezzo ebreo, Saul, che anche se si fa chiamare Paolo, sempre ebreo rimane, e come tutti gli ebrei è un esaltato e un sedizioso che odia Roma. Non sai cosa compie, forse, alle porte di Roma, a Tessalonica, ad Atene a Corinto? Forma gruppi sempre più numerosi, a cui insegna che la realtà è finta, e che bisogna ribellarsi. Fa digiunare i suoi discepoli, li obbliga alla veglia, li costringe all’astinenza sessuale, li fa camminare sui fuochi ardenti a piedi nudi, mangiare vetro, e nutrirsi del veleno delle aspidi: forma eserciti indistruttibili alle sue dipendenze. Ha i suoi mezzi. Sai chi è Paolo, il Tintore, e quanto e come sia esperto nelle arti magiche. Ha fatto parte di tutte le sette di esaltati dell’oriente e dell’occidente. È stato sui libri paga della nostra polizia e di quella del suo paese di origine e di chissà quante altre potenze. Quello che lo ha reso prezioso a noi, la sua abilità come truffatore, le sue conoscenze nelle sette segrete, e finanche le sue capacità oratorie e inventive, lo possono rendere utile a chiunque altro. Penso, forse, che potrebbe vendere la nostra creazione a chiunque altro? Sì. E penso anche di peggio. Penso che potrebbe usarla a suo solo tornaconto. Vigila bene, Seneca.


Seneca a Paolo.

Paolo, fratello mio, ti scrivo preoccupato. Paolo, tu sei mio fratello. I vincoli sacri contratti in gioventù, la segreta aspirazione a cui essi ci hanno condotto, ci rendono l’uno vivo solo per l’altro. Ricordo ancora il viaggio che facemmo insieme nella città dell’al di là, in parte ancora rinchiusi nei nostri corpi separati, parti uniti nel nostro vero corpo sottile. Chi ha conosciuto quella unione non può più separarsi. Se temo per la tua vita è dunque temendo anche per la mia. Tutto va a rotoli. Petronio si ribella. Dirà tutto. Dirà che ha inventato lui la figura di Cristo e scritto il vangelo intitolato a Marco. Sta facendo circolare, inoltre, un vangelo intitolato a Tommaso per denunciare tutte le tue fonti e screditarti come mistificatore di esse.

E non mi preoccupa solo lui. Il nostro più grande problema è Calpurnio. Sì, il Calpurnio nostro dolce amico. Quel Calpurnio che ci salvò la vita quando decidemmo di lasciarla come ignobile per raggiungere prima la vera vita, e ci consigliò di rimanere ancora un po’ su questo piano di realtà per compiere una missione. Una missione che ora tradisce. Ci odia ora, e non ama. E su tutti odia te. Ci ha tradito. Vuole usare la nostra invenzione per uccidere Nerone e sostituirlo. Vuole che i nostri fedeli facciano la rivolta e pongano a governo di Roma lui, Calpurnio, come depositario delle verità del Cristo. Per questo motivo vuole farti fuori, vedendo in te un nemico. Tu continui a divulgare il vero senso della nostra opera. Tu continui a svelare la mistificazione di questo mondo. Tu continui a spingere tutti alla vera rivoluzione. Bada a te stesso. Fuggi. Almeno per un periodo. Mettiti al riparo.


Calpurnio a Paolo.

Paolo, fratello mio, con te ho cominciato questa storia dieci anni fa e con te la devo finire. Seneca è impazzito, o si finge pazzo. Conosciamo entrambi le sue debolezze e le sue incertezze, tante volte da noi giustificate. Ma ora ha passato il segno. Dice che se è falso questo mondo, regno del male, sono anche falsi i mondi visitati da noi, suggestioni dei nepenti e della nostra fantasia esaltata. Dice, infine, che Gesù Cristo è una nostra invenzione. Petronio lo avalla in questa fandonia, dicendo che lui è l’autore di quasi tutti gli scritti che parlano del nostro maestro. Quale sia il loro fine mi sfugge.

So solo che dice in giro che io voglio usare i nostri fedeli per fare una rivoluzione e sedere al posto di Nerone. E dice che tu sei un pazzo da me manovrato. So che vuole metterci l’uno contro l’altro. Mi mette in guardia da te, dicendo che tu prepari per conto tuo una sedizione a Corinto e Tessalonica, e che mi vuoi fare fuori. Immagino che a te dirà che io complotto contro di te. Deliri. Sono solo deliri. La verità è che Seneca ci ha traditi. E vuole manovrarci. Vuole infangare il mio e il tuo nome, e con il nostro quello di Cristo, attribuendoci false smanie di potere. Ti prego, vieni qui a Roma. Subito. Appena puoi. Se stiamo correndo qualche rischio, lo correremo insieme. Come abbiamo sempre fatto. Non teme la morte, chi sa che non esiste.


Calpurnio a Petronio.

Fratello mio, Petronio, è la fine. Che Paolo fosse pazzo, lo sospettavo da tempo. Ora è certezza. È convinto, avvelenato dalle sue stesse parole, che Cristo sia esistito davvero. Ricordi quando insieme abbiamo salvato Paolo e Seneca da quel loro funebre gioco a due? Pensavamo di averli, in seguito, riportati alla vera scienza della realtà, di come tutto sia sogno. Paolo, in realtà, ha continuato a credere in segreto che le sue visioni sono vere. Questa sua cieca fede in ciò che crea con le sue mani, anzi, in segreto è diventato un mostro che lo ha divorato. Ma questo non è solo un male per il nostro caro amico. Il peggio è per tutti noi, e per la nostra causa.

Ora dichiara a tutti di avere conosciuto di persona Gesù, e davanti all’evidenza che i fatti attribuiti a questo personaggio da te inventato, mio buon Petronio, si sono svolti quando lui era appena un bambino, risponde, come i matti, che lui lo conosce davvero comunque. È venuto fino a Roma per dimostrare la verità di quanto dice. Ha sobillato interi gruppi di persone. Come sai è questo il motivo per il quale è stato condannato a morte. Questo, per quanto mi duole dirlo, sarebbe potuto essere almeno un bene per la nostra causa. C’era da sperare che il suo martirio invogliasse alla ribellione i nostri fedeli. Invece ora hanno tutti paura. Nerone ha sparpagliato soldati da tutte le parti. Roma è assediata dal suo imperatore. Tutto è andato a rotoli, e ormai si impone per noi una sola via di uscita. Quella che avevamo lasciato per ultima, sperando di non doverla usare mai. Dai tu il segnale a Seneca che l’ora di Nerone è giunta.


Calpurnio a Nerone.

Figlio mio, il nostro sogno si avvera. Tra qualche giorno potrai trovare una lettera di Petronio a Seneca in sui si prepara una congiura contro di te. E così, dopo giusta condanna, Petronio e Seneca non saranno più dei nostri. Quanto a quel mentecatto di Paolo è venuto a farsi uccidere di sua spontanea volontà. Morti i suoi inventori, ora Cristo è vero. E in nome di Cristo tutti vorranno essere uguali, tutti liberi allo stesso modo, come schiavi, sotto la stessa unica e divina autorità. O Nerone, con te, oggi, l’impero diventa eterno.


martedì 30 ottobre 2012

ROMA, TRASTEVERE: LIBRI E AUTORI INCONTRANO IL TEATRO
Al Teatro Argot Studio di Roma arrivano i RedReadings




   Sette appuntamenti con la letteratura, la musica e la critica. Un lunedì al mese ad “andare
in scena” saranno i libri, le storie e i loro autori attraverso reading e performance teatrali con
musica dal vivo che consentiranno al pubblico di creare un rapporto particolare, “intimo”, con i
testi presentati.
   RedReading è un programma teatrale, ideato dall'attrice e autrice Tamara Bartolini, assieme
all'attore e musicista Michele Baronio, realizzato in collaborazione con la rivista TerraNullius
Narrazioni Popolari, prodotto dal Teatro Argot Studio e Sycamore T Company.
RedReading si propone come uno spazio aperto di riflessione e condivisione attraverso il
dialogo con gli autori e i critici per fare esperienza insieme di tutte le emozioni legate a un libro
e alla sua creazione.
   Si alterneranno sul palco alcune delle voci più significative della letteratura contemporanea,
come Erri De Luca e Wu Ming2, il fotografo-narratore per immagini simbolo degli anni
settanta Tano D'Amico, critici letterari e cinematografici e non mancheranno le incursioni di
autori più giovani chiamati a confrontarsi con le tematiche dei testi scelti.
   “Protagonisti degli spettacoli non saranno soltanto i libri - spiega Tamara Bartolini - ma anche
l'esperienza che è stata per noi la lettura. I RedReadings hanno un formato sentimentale e
vogliono essere una piccola forma di resistenza all'oblio e allo svuotamento delle
parole, alla nostra condizione esistenziale, politica ed economica.”
   “Le storie appartengono a tutti - prosegue Michele Baronio - e leggere insieme assume un
valore che va oltre la lettura stessa e crea uno spazio segreto e intimo fra l'autore-attore e il
suo lettore-ascoltatore.”
Il primo appuntamento è lunedì 5 novembre alle 21 con “Notturno Pasolini”, un
reading-concerto, una drammaturgia musicale e poetica che nasce dalle sue canzoni scritte da
Pier Paolo Pasolini. Un omaggio, una indagine letteraria, che prende le mosse dall'ultima
intervista rilasciata dallo scrittore a Furio Colombo, il giorno prima di morire.
Tra gli ospiti Patrizia De Mei (ideatrice di Passeggiate Romane), Attilio Scarpellini (critico
teatrale e saggista) e Emanuele Trevi (scrittore, finalista Premio Strega 2012). Coordina Pier
Paolo Di Mino
(scrittore, sceneggiatore).
   “Portare le storie in teatro, traducendone l'intimità della lettura in voce recitata -
 conclude Pier Paolo Di Mino che introdurrà tutti gli spettacoli- è il primo atto della rinascita
 della letteratura popolare.”
 



Lunedì 5 Novembre alle ore 21,00 al Teatro Argot Studio- Via Natale Del Grande, 27 Roma
Notturno Pasolini
con Michele Baronio, Tamara Bartolini, Renato Ciunfrini, Cristiano De Fabritiis, Ilaria Graziano
drammaturgia e regia Tamara Bartolini.
Sound Design Michele Boreggi
Ospiti: Patrizia De Mei, Attilio Scarpellini, Emanuele Trevi
Coordina: Pier Paolo Di Mino
Per il programma dettagliato:
www.terranullius.it
www.teatroargotstudio.com

martedì 17 luglio 2012

giovedì 5 luglio 2012

Biglietto, prego

Da oggi in tutte le librerie: "Biglietto, prego", antologia di foto di viaggio (autore Gianluca Giannone) illustrate dai racconti di diversi autori. Il libro lo ha curato Alex Pietrogiacomi, e lo ha pubblicato la casa editrice Zero91.








21 scrittori italiani, sempre in bilico su una strada incapace di essere definita per colpa di un quotidiano pieno di trappole e sorprese, raccontano la vita dei pendolari, dei precari, dei viaggiatori forzati, attraverso i propri occhi e quelli di un fotografo, creando percorsi alternativi, tracciati da chi non vuole nascondersi tra i binari imposti
dall'esigenza né tantomeno arrendersi a una società menefreghista.

Racconti brevi, capaci di essere compagni di percorso per una o più fermate oppure per tutto il tragitto desiderato, che hanno per protagonisti i pensieri, i sogni e i volti di chi abitualmente timbra il suo biglietto per la propria esistenza non rassegnandosi all'idea di essere uno sconosciuto da incontrare puntualmente a una fermata.

Un viaggio solitario o in gruppo, che comincia voltando pagina, da uno scorcio di irrealtà che ogni giorno
chiamiamo vita.

21 racconti di:
Matteo Trevisani
Iacopo Barison
Fabrizio Gabrielli
Lorenza Fruci
Gianfranco Franchi
Alessandro Hellmann
Massimiliano e Pier Paolo Di Mino
Simone Ghelli
Micol Beltramini
Adriano Angelini Sut
Ernest LeBeau
Roberto Mandracchia
Alfredo Ronci
Francesca Bellino
Marilena Renda
Luca Piccolino
Matteo Bortolotti
Raffaella R. Ferré
Gianluca Liguori
Alessandro Raveggi
Alex Pietrogiacomi

Introduzione di Filippo Tuena
Postfazione di John Vignola
Fotografie di Gianluca Giannone

"...sono racconti così pieni di ironica e sofferta umanità che a confronto la psicosi di un dromomaniaco eccellente qual è stato Jean-Albert Dadas appare appena un acquerello."
Paolo Sortino

Camera Canon 550d
Lens Canon 18-50

mercoledì 14 marzo 2012

L'isola felice degli anni Sessanta - Massimiliano e Pier Paolo Di Mino





Articolo pubblicato su LEGGERE:TUTTI n.66 Marzo 2012, 
"L'isola felice degli anni Sessanta"
"Tre scrittori (Elsa Morante, Guido Morselli, Pier Paolo Pasolini) che con le loro opere ma anche con i loro crudi destini sono stati esemplificativi per la loro generazione e quelle successive"

sabato 10 marzo 2012

Augusto Stigi legge Fiume di Tenebra

NON SI FINISCE MAI DI COMBATTERE


 Il soldato combatte sempre, tornato dal fronte continua con se stesso. 
L’esaltazione dell’ego in una trincea infinita striscia contenta,
impassibile ai richiami di un' anima corrotta, logorata da morti senza nome e splendida gioventù.
La spada affonda nella ferita anche se putrida dal tempo infettando l’età dell’amore.
Quanti sguardi e sorrisi, indegni di esistere, cavalcano il dorso del demone.
Purifica l’aria che ti circonda e avrai di che sfamarti bestia feroce.
No, non è pazzia giovane assetato d’impresa, è il coraggio che non conosce direzione, l’ ardire di chi non sa che fare, l’ambizione del tempo che non esiste.
E per lo scempio dell’uomo non vi è termine, accade e si maschera, s’insinua  e prolifica.
Dimenticare è l’ignoto, è il nulla a cui aggrapparsi, l’irraggiungibile pace distrutta dai sovrani.
Oh giovane frenetico soldato, non si finisce mai di combattere.

Augusto Stigi 



giovedì 23 febbraio 2012

IO RICORDO SANDRO PERTINI [24 FEBBRAIO 1990-2012]

dall'introduzione al Libretto rosso di Pertini

Ventidue anni fa moriva il Presidente più amato dagli italiani. Sandro Pertini rappresenta quella figura etica di uomo incorruttibile e di indefesso combattente per la libertà di cui oggi più che mai si sente il bisogno. “Il libretto rosso di Pertini” è un saggio fra letteratura e storia, che raccoglie gli scritti e i proclami politici del grande Presidente di tutti gli italiani e ne ricostruisce l’entusiasmante biografia, dalle sue imprese durante la Prima Guerra Mondiale alla Guerra di Resistenza durante la Seconda, passando per l’esilio e il carcere, fino ad arrivare alla Presidenza della Repubblica. I fratelli Di Mino, autori del romanzo “Fiume di tenebra”, sull’epopea dannunziana a Fiume, e de “Libretto rosso di Garibaldi”, completano così un percorso ideale alla riscoperta dell’epica nazionale, ridisegnando la figura di Sandro Pertini, in una chiave moderna e originale, come mito ancora attivo.



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MASSIMILIANO DI MINO,  PIER PAOLO DI MINO

Il libretto rosso di Pertini
La vita degna dell’uomo che passò dal carcere, all’esilio, alla presidenza della Repubblica

sabato 11 febbraio 2012

OCCIDENTE Storia di un declino implacabile in dieci mosse - IPAZIA


OCCIDENTE
Storia di un declino implacabile in dieci mosse
Massimiliano Di Mino, Pier Paolo Di Mino, Marco Saura

INTRODUZIONE
 
L’Occidente, omen nomem, sembra nato per il proprio declino. Perfino le più alte intuizioni spirituali, culturali e filosofiche che segnano la sua storia sono state usate per consumare questo destino di massacri e orrori che sembrano correre verso un’apocalisse non meno sperata che temuta.
“Occidente” raccoglie dieci racconti, dieci biografie di altrettanti personaggi cardine che rappresentano la storia dell’Occidente, dalla nascita dell’impero romano all’attuale declino dell’impero americano, passando per la nascita della banca mondiale: asceti, mistici, massoni, scienziati, filosofi, scrittori, politici, re, imperatori ciecamente impegnati a correre verso una catastrofe oggi sentita come imminente (con tanto di profezie sul 2012).
Raccontare la storia di questa catastrofe (di una catastrofe chiamata Storia) non è solo un irriverente piacere, ma anche un atto di fede. Un atto di fede nel racconto, e nelle parole con cui si fa un racconto.
Da ultimo Wittgenstein ci ha insegnato che le parole non corrispondono più né alle cose né ad alcuna verità: che sono inutili e morte. Al racconto, così, è stato possibile sostituire la pubblicità. Ma in fondo è sempre stato così. Così si fa la Storia. Ogni volta che un uomo ha alzato la testa per dire che l’altro mondo è questo, che l’apocalisse è ora, che tutto il reale è un’epifania, che ogni uomo produce secondo le proprie capacità per mezzo dell’immaginazione, ovvero della capacità di evocare il reale nella sua essenza; ogni volta è stato necessario distanziare queste parole dalla loro realtà. Questa necessità la chiamiamo Storia; e la Storia, allora, altro non si rivela che la fede in una fantasia allucinatoria, che non importa se ha per oggetto un Dio che crea dal nulla un mondo da redimere con la promessa di un paradiso, o, ed è lo stesso, un uomo che questo mondo lo redime col progresso. L’unica necessità impellente della storia pare essere il ridurre l’immaginazione a fantasia, e le parole a pubblicità. L’importante è l’inevitabile incredulità che tutto questo produce, e che ci fa, dunque, sperare in una assolutoria e pacificatoria catastrofe.
Ho suggerito sopra una distinzione che meriterebbe una lunga disamina: quella tra fantasia e immaginazione. Mi limiterò a metterla giù così, distrattamente: usiamo l’immaginazione quando evochiamo un dio secondo le nostre possibilità; la fantasia, invece,  quando lo creiamo secondo i nostri intenti. Nel primo caso godiamo di un’esperienza, nel secondo di un oggetto fatto da noi e per noi. Un oggetto crea appagamento, e l’appagamento, inevitabilmente, porta all’insoddisfazione. Ogni insoddisfazione  ha bisogno di nuovo appagamento. Per dare un senso a tanta inutile e perpetua fatica è necessario, allora, pensare che il nostro dio sia l’unico, il solo, il vero. E, per fare questo, dobbiamo necessariamente trasformare il nostro dio in reale. Dobbiamo, allora, innanzitutto  creare la fantasia del reale. Creata la fantasia di un dio unico e di una realtà unica, bisogna scordarsi che è una fantasia. Piccolo esercizio che, specie se eseguito collettivamente, ha sempre buona riuscita. Il fine dell’esercizio è fare in modo che in giro non ci siano altre fantasie, in maniera da rimanere intrappolati ciecamente e senza scampo in un’unica prospettiva cognitiva. Da qui il “fateli entrare per forza” evangelico: convertire a questa fantasia con le buone o con le cattive più persone possibili. I riottosi possono essere sterminati. Il teorema è perfetto, e la sua applicazione pratica, secoli dopo secoli, non ha mancato mai di suscitare un’impaurita ammirazione.
Si converrà, però, che una fantasia rimane sempre una fantasia: che è sua natura essere evanescente e tendere al nulla. Così, nella Storia, questo dio assoluto è stato necessariamente declinato secondo le diverse fantasie del momento, le differenti mode o necessità contingenti: dio degli eserciti, dio buono, dio dell’amore, dio come materia, dio come ragione, dio come storia, dio come ideologia, e via dicendo, sempre con l’intrinseca  tendenza fatale a rivelarsi come dio del nulla e a risolversi quindi in una apocalisse, una catastrofe.
L’apocalisse, che è oggi. E così, infatti, arriviamo ad oggi anche noi, nel racconto del nostro Occidente; nell’esegesi immaginale che, con questa piccola raccolta, facciamo della fantasia della Storia, o, come direbbe Joyce, del suo incubo. Una fantasia presa tragicamente sul serio. Viviamo menomati da questa fantasia, al punto che vale sempre la pena, come fa Thomas Brown, “domandarsi se nelle matematiche di taluni cervelli le linee intellettuali e fantastiche non siano affatto disposte correttamente, ma anzi, ingrandite, diminuite, distorte e malposte, donde nascono concezioni irregolari delle cose, nozioni pervertite, concezioni errate e allucinazioni incurabili”.
“Occidente” indaga queste matematiche in dieci simpatiche dispense.
Nella prima il pubblico godrà degli effetti della matematica celebrale dello sciamano Ennio, che prende per un allucinatorio dio assoluto il suo dio personale: e che si converte al monoteismo dell’impero romano nascente, e se ne fa il vate.
Quindi: la matematica del cristianesimo, preso a calcolare le misure ipostatiche di una rivelazione che deve servire a fare Storia, e che santifica, allora, perfino il Potere come Spirituale. Condannando Gesù alle sue epifanie come fossero una malattia, un disturbo schizofrenico.
Poi: la matematica distorta di San Cirillo, che trova il suo nemico in una donna, Ipatia, l’ultimo“santo” pagano di un docetismo in via di degradazione (troveremo il suo discepolo Sinesio, più in là nel tempo, a doversi arrendere alla nuova teologia cristiana, per motivi di responsabilità, “purché non mi chiediate ragione del vero significato dell’incarnazione”). San Cirillo potrà ammazzare il sacro in Ipatia e costringerlo nel culto mariano, di cui è l’inventore.
E via via vedremo come il monoteismo allucinatorio si impossessi del braccio armato di Carlo Magno; costringa al fallimento Dante Alighieri e la sua cerchia di compagni; usi la fisica dell’alchimista Newton, arreso all’era della banca mondiale; spazzi via il sogno messianico di Garibaldi, quello massonico e quello dei visionari del Novecento; fino ad arrivare alla conversione di un simpatico ubriacone al Dio della nientificazione: George W. Bush.
Questa è la storia di una fantasia che abbiamo voluto restituire all’immaginazione, di un’implacabile catastrofe rivista con gli occhi di una augurabile rivelazione. Un atto di fede, dunque, il nostro,  e quindi di amore, a cui gli autori vogliono rimanere fedeli. D’amore, sebbene, è doloroso vivere.
Ed ora, bando alle chiacchiere: ecco la storia di Ennio.
Pier Paolo Di Mino



IPATIA
[terza mossa]

Quella che segue è la traduzione di una lettera datata 20 agosto 391 d.C, indirizzata dal grande matematico Teone di Smirne a sua figlia Ipatia.

Fa questo, Ipatia, mia figlia adorata. Anzi fai quello che devi fare. Del resto il tuo carattere ostinato non ti permetterebbe di adoperare alcuna scelta che ti possa sembrare imposta. Dunque questa lettera sembra essere inutile. Forse per questo brucerà prima che tu possa leggerne anche un solo rigo. Forse questa lettera dovrà un giorno essere scritta da qualcun altro, affinché tutto questo abbia un senso.
[1] Non è questo quello che fai nell’aula in cui insegni le nostre discipline? Come giovane maestra la prima cosa che devi apprendere è che insegnare è sacrificare il proprio sapere, esporlo al fraintendimento e all’incomprensione. Talvolta al tradimento.
Ma questo vale per tutto. Perfino tuo fratello Epifanio tradisce il suo corpo esibendolo nelle gare atletiche. E fa lo stesso Atanasio, il tuo fratello diletto, che tradisce la propria abilità di mercante, nel momento stesso in cui mercanteggia. Solo l’Uno, nella sua emanazione, non si disperde, ma si diffonde. Ed ogni atto tende a risalire questa emanazione. E questo è l’atto che tutti compiono, e che nessuno può impedire che si compia. Nostro compito, nel bene e nel male, è solo quello di avere chiaro nella coscienza come si diriga questo atto.
[2] Questo ci rende differenti anche da Olimpio. Dopo la promulgazione dell’ultimo editto di Teodosio ha perso la pace e si è messo a fare minacce al vento, esibendosi nei sacrifici al tempio come un mago davanti ad un pubblico di popolani. Dice che ha avuto un sogno. Ha visto la distruzione della Biblioteca. Dice che ha visto fiamme e distruzioni. Pietosamente non mi ha detto di avermi visto morto. Ora vuole andarsene. È convinto di essere l’anello di congiunzione fra il sogno e la realtà e che, se se ne va, il suo sogno non si avvererà. Ed invece, malgrado la sua fuga, malgrado io cercherò di salvare i papiri, e la mia vita e quella di Zeev, tutto si avvererà come nel suo sogno.
[3] Non so cosa penserai di me dopo che tutto sarà avvenuto. Se mi ricorderai come un vile per non aver combattuto fino all’ultimo e non aver ostentato le mie convinzioni, come Olimpio. Oppure se mi immaginerai come un martire per essere morto difendendo i libri. Se penserai una di queste due cose sarai comunque in errore. Non sono un vigliacco, ma, se non riuscirò a salvarmi la vita, come sembra, sarà per pura sfortuna. Mia sfortuna. Per questo ho paura e, in questo momento di paura, mi preoccupo come una fanciulla della considerazione che la mia figlia amatissima potrà avere di me un giorno. C’è veramente un dio dentro l’uomo, che lo sospinge, se, nella sua miseria, è comunque destinato ad elevarsi alla divinità. Ce n’è perfino in Teodosio che deve accanirsi contro qualche vecchio sacerdote come Olimpio, contro dei rotoli di papiro, contro le parole che vi sono scritte sopra, per giocare all’imperatore. C’è ne è in Ambrogio, che lo consiglia per il meglio, povera anima che non ha saputo trovare nessuna sistemazione migliore in questa vita per le sue inquietudini. C’è un dio perfino in Teofilo, Ipatia, certo ben nascosto dietro gli strati di cieca ignoranza e pazzia, di sordida invidia che gli rendono gialla la pelle. Ce ne è, e sarà uno in tutti gli uomini che conoscerai. Nei discepoli che ti ameranno e tradiranno, nei criminali che ti odieranno e uccideranno.
[4] Tutto quello che succede ha il sapore della farsa assurda. Di una farsa in cui i folli si arrogano lo scettro della verità per percuotervi gli innocenti. Eppure, se non ne fossimo coinvolti, leggeremmo questa farsa come un racconto, che ci mette paura o fa ridere, e godremmo nella lettura come chi ravvisa un piano nello scrittore che lo ha redatto. Non ti chiedo di accettare tutto questo per fede, ma per ragionamento, come ti ho sempre insegnato. Di leggere tutto questo come una storia con il suo inizio, e la sua fine.
[5] Perfino al sofista ebreo in nome di cui questa gente perpetra questi delitti non sfuggiva, forse, che ogni sua parola è rivolta a tanto male. Eppure, per spirito di verità, per amore di bene, o per comprensione dell’essere, non gli sfuggiva neanche di doverla dire. Almeno così ragiona il mio caro Zeev, che è giudeo, e che comprende a pieno un linguaggio che a noi può sembrare rozzo o astruso. E che morirà insieme a me per salvare libri a lui estranei.
[6] Allora, leggi tutto come una storia e cerca di capirne il finale nella minuzia del suo significato. Pan è morto. Ma per il governo degli uomini un dio vale l’altro. Lo sa bene l’imperatore Teodosio che, per avere più saldo nelle proprie mani il potere che gli è tanto caro, quello del grande Impero Romano, ha regalato la sua investitura di Pontefice Massimo al capo dei cristiani. E i cristiani, nel loro fervore di rivolta, nella loro sete di virtù e verità, sono docili all’ubbidienza come pochi. Sono come bambini nell’età della crescita che tanto più si rivoltano al padre, tanto più si destinano a diventare ubbidienti del prossimo più ricco, più potente e più forte. Lo sa bene Teodosio che annette al consiglio del proprio governo uomini come quell’Ambrogio di Milano, che è arrivato ad occuparsi di cose sacre non sa nemmeno lui come.
[7] Dicono che, dopo aver arrancato nella vita politica, e magari aver tanto penato nel sospetto di aver deluso suo padre, come capita a tanti di questi grandi uomini, si sia ritrovato in mezzo alla contesa di due sette cristiane, una detta degli ariani e l’altra degli ortodossi, e di esserne uscito, con la spada e la mazza, con la nomina di vescovo. E lui, per non sapere né leggere, né scrivere, dopo qualche tentennamento, dopo aver pensato che non era questo che aveva cercato per tanto tempo, accortosi che il potere è potere qualunque sia la nomenclatura con cui lo si designa, ha acconsentito a farsi vescovo e da vescovo ad esercitare questo potere, con la spada e la mazza, contro tutti i suoi nemici. Dicono che si è perfino dovuto mettere a studiare i testi cristiani che, da buon romano, gli saranno sembrati noiosissimi. Povero uomo. Forse se ha deciso di uccidere tutti i pagani, come ci chiamano i cristiani, di bruciare tutti i libri, di distruggere tutti i santuari e i nostri giochi, non è solo per la volontà, sconfitti noi, di asservire tutte le coscienze degli uomini con la paura e l’ignoranza. Forse sono quelle ore di noioso e terribile studio che hanno trasformato la sua baldanza da picchiatore romano in odio puro. Oppure, puoi leggerla anche così: Teodosio ha veramente avuto paura di morire e si è convertito alla parole che gli davano la più compiacente speranza di sopravvivenza. Tutto il nostro dolore è causa di un uomo che non sa morire e che, per paura della morte, uccide. Nella lettura di questa farsa potresti, in verità, trascurare anche questi personaggi lontani. Forse, se fossimo governati dal migliore degli uomini, nulla impedirebbe ancora al mondo che persone come il buon vescovo Teofilo vogliano esercitare il loro odio verso quello che non capiscono, temono od invidiano. E, figlia mia, se Teofilo ti sembra sentina di ogni malvagità, abbi allora cura di tenerti lontana, se puoi, dalle mire di suo nipote, Cirillo. Egli è più triste del deserto che ci circonda. Se questa storia si potrebbe ridurre all’invidia di Teofilo nei miei confronti, la storia potrebbe proseguire, con maggiore dramma, con la bramosia morbosa, la gelosia e l’invidia furiosa di Cirillo nei tuoi confronti. Non so cosa ispiri a quel ragazzo con i tuoi modi, ma temo che potrà sublimare sentimenti tanto funesti non prima di averti fatto del male.
[8] Come vedi puoi leggere questa storia in tanti modi. La concupiscenza di uno, l’invidia di un altro, la malattia del corpo di un imperatore, l’incapacità di un giovane governatore milanese, la brama di potere di tutti.  Oppure in un solo modo. La paura.
[9] Ma c’è anche un altro modo ancora di leggere. Modo per il quale ti prego di fare affidamento ancor più alle facoltà della tua mente, tanto più se le mie possano sembrarti parole di un pazzo. Dopo aver ricevuto le nefaste confidenze oniriche di Olimpio, l’altro giorno, ho scrutato il cielo, e ho visto i corvi. I corvi che da anni studio, esaminandone il volo e catalogandone le figure con rigore per capirne il linguaggio che esprime vaticini. Ho visto i corvi, e i corvi, dapprima volando fitti come la schiera di un esercito, poi separandosi l’uno dagli altri come per una violenta incursione, si sono dunque riuniti, e hanno volato, come fossero un unico essere dalla forma di una serpente che si mangia la coda. Poi si sono nuovamente separati, e si sono poggiati su una cupola, con compostezza. In silenzio. La quieta della lotta. L’inizio dalla fine nell’infinito ricorrersi degli elementi che contengono elementi che contengono elementi, ed in ogni elemento sono tutti gli elementi, e tutti sono uno. Come si può distruggere una cosa che è? Come si può distruggere questa lettera, anche se qualcuno vorrà bruciarla? Distruggere è uno dei modi del creatore per conservare, forse. Per arrivare all’unità, del resto, bisogna saper ben dividere. E, nell’eucarestia di certi culti, non si canta lo smembramento degli iniziati? Così, come fanno i corvi, le parole, i pensieri, la verità, la sapienza che domani, domani l’altro al massimo, spariranno, spariranno per ricomporsi in altri voli e figure e immagini, con altri nomi, parole, e aspetti, per essere sempre se stessi. Io pure morirò per essere me stesso, in maniera tale che il Teone matematico faccia ancora matematica, il Teone che adora e inorgoglisce per sua figlia sia ancora padre, il Teone vanitoso e goffo diventi un pavone ed una gallina. Infine che il Teone che amava inanellarsi i suoi bei capelli rossi diventi il fuoco di una sera in un umile focolare. E lo stesso è per te, per la tua matematica, per la tua intelligenza, per il tuo amore per l’insegnamento e le scienze. Ma anche per la tua rigidezza, che diventerà colonna per bei palazzi, per il tuo spirito di giustizia, che diventerà bilancia in un mercato e, perfino per il tuo sciocco desiderio di rinunciare ai piaceri della carne per dedicarti alla scienza. Diventerà la fissazione di qualche strano culto e cadrà nel dimenticatoio. Prima o poi. E così sarà per Cirillo, per gli avanzi di galera che accoglie e nutre nel suo convento e che ti uccideranno con orribile crudeltà, strappandoti pelle e carne brano a brano, figlia mia, mia figlia, come vorrei prendere tutto questo su di me, colpo su colpo, ferita su ferita, ma semplicemente questo non è.
[10] E questo non è, perché non permetterebbe all’essere di essere se stesso, e ci comporteremmo da sciocchi non a impedire che tutto sia, giacché non lo possiamo, ma nel desiderare di impedirlo più del necessario. Ma penso che tu se, ancora non lo sai, lo saprai ben presto e meglio di me, quando avrai finito di esplorare le vie che da qualsiasi punto portano alla stesa vetta. Per questo non trascurare mai nessuna prospettiva, sia che essa ti sembri ingannevole come un sogno, come ti è parso il mio lavoro sui corvi, sia che ti sembri troppo leggera, come può essere una poesia. Allo stesso modo non dare mai peso a niente, anche se ti si presenta sotto una luce luminosa, come la matematica e l’astronomia. Per il resto, adoperati per essere più felice che puoi e, se vuoi, fai tesoro dei pochi consigli che ho sparso nella mia vita. Li avrei raccolti con piacere tutti, ma forse è stato fin troppo il tempo che mi sono concesso redigendo questa lettera. Abbiamo ancora troppi papiri da nascondere e cercare di salvare prima che, domani stesso forse, vengano a trovarli e bruciarli e bruciare noi con loro.
Con la distruzione della Biblioteca di Alessandria del 21 agosto 391 d. C. andarono distrutti oltre settemila papiri, tra cui, forse, anche questa lettera. Nella sua lunga storia la Biblioteca, tesoro della sapienza umana, è andata distrutta più volte. Questa fu l’ultima e la definitiva. L’imperatore Teodosio, dopo aver promulgato una serie di editti volti a svellere alle sue radici la cultura politeista, gnostica, platonica, e all’interno del cristianesimo stesso, ad eliminare i troppo poco politicamente docili ariani, avrebbe consegnato nelle mani di un cattolicesimo ben consolidato un avvenire di guerre fratricide e insensatezze varie. La biblioteca fu bruciata, ufficialmente, perché annessa al culto del tempio di Serapide, di cui Olimpio era sacerdote. Teone, aiutato dall’israelita Zeev e dalla figlia Ipatia, cercò di salvare i volumi dell’istituzione presa d’assalto dai monaci di Teofilo e di suo nipote Cirillo. Nonché dalle guardie imperiali. Ipatia fu l’unica dei tre a salvarsi per trovare una morte orribile molti anni più tardi su commissione di Cirillo ed esecuzione di un simpatico gruppo di monaci tagliagole del monastero della montagna della Nitria, nel deserto di San Marco. Cirillo, in seguito, verrà fatto santo, anche grazie alla sua speculazione sulla verginità della Madonna, alla base del relativo dogma. In fondo aveva ragione Teone, che il buon uomo avrebbe trovato il modo di sublimare la propria concupiscenza nei confronti di Ipatia, vergine per la scienza, solo dopo averle fatto molto male.

Massimiliano Di Mino, Pier Paolo Di Mino, Marco Saura