venerdì 3 febbraio 2012

Mario Monti e le brioches. Domani non andate a lavoro - Pier Paolo Di Mino

MARIO MONTI E LE BRIOCHES
Domani non andate a lavorare

 I regnanti amano battute tipo, metti che la gente ti muore di fame davanti ai cancelli di Versailles: “non hanno pane, lanciategli brioches!”. Oppure, davanti al popolo affamato dalla disoccupazione, siamo in Inghilterra, circa quaranta anni fa: “così non si lamenteranno più di non avere tempo libero”. Monti aggiunge la sua, in questi tempi di fine impero; tempi in cui tutti gli imperi finiscono.

Monti ci dice che bisogna accettare il precariato. In fondo è un modo per abbattere la noia. E molti avranno pensato che il Presidente è di cattivo gusto in queste uscite. Ma, lo sia o meno, non badiamo a certi estetismi. Badiamo alla sostanza.

Monti rivela una realtà: anzi, la realtà. La realtà soggetta al caso e alla necessità così com’è. Non c’è sicurezza nella vita, ci dice Monti. Finora a questa consapevolezza si dovevano ridurre solo i filosofi. Ma ora è apocalisse: la rivelazione è per tutti.
Facciamo attenzione. La consapevolezza, tutta insieme, si sa che fa male. Si diventa matti, e allora, forse, qualcuno potrebbe pensare che Monti faccia qualcosa di pericoloso. Sì, insomma, che possa suscitare esagitazione, che ci proponga, per dire, con le sue parole socraticamente ironiche una via sauvage, un ritorno alla foresta; o che istighi i giovani alla ribellione incendiaria. Il suo è uno sfogo che ricade nella retorica punkabbestia?
Parrebbe. Molti potrebbero pensare. Ma scaviamo ancora più a fondo. Monti è un uomo solido. È anziano ed è un regnante che ama la battuta amara. È un senex, direbbero gli psicologi. È un saggio melanconico. E la melanconia è la via regia che mena alla vita. Monti, di certo, non sbaglia. Monti dice bene: la realtà è in sé, ontologicamente, incerta, e come insegna Platone nel “Timeo” non sono le quattro fantasie della nostra ragione a poterla rendere sicura e a nostra disposizione. Monti non sbaglia, e non scherza. È un grande terapeuta che ci dice: va bene, siamo malati, ma meglio. La cura finora è stata il nostro male. Il nostro male è stato pensare di creare un civiltà che ci mettesse al riparo. Male i nostri sistemi di sicurezza, le nostre assicurazioni bancarie, le nostre dighe, le nostre mura. Male tutta la nostra civiltà. Tutta paranoia e allucinazione. Tutta psicosi. Ma ora guariamo in virtù di un nuovo male.
È sempre così.
Il troppo sole va reso saggio da un po’ di salutare ombra. Ora la depressione ci cura. Ora ci cura la coscienza dell’incertezza e del vuoto che rappresenta per noi il domani. Siamo curati da questa febbre che ci rende deboli, delicati, insicuri: che ci fa socraticamente sapere di non sapere. Che ci rende veramente flessibili.
Sì, questo ci dice Monti: siate flessibili: oggi lavoro, domani no. E pure dopodomani mi sa che sto male. Il terzo dei disoccupati che non cerca più lavoro l’ha capito. Monti è il nostro saggio terapeuta: il lavoro è amato dalle nostre mani e lavorare senza questo amore ci ha dato questa depressione. Fate solo quello che vi piace. Disertate banche, supermercati, ministeri. Tanto più che, comunque, un giorno, presto, verrete comunque licenziati.

Sentite Monti: domani non andate a lavoro.

Pier Paolo Di Mino

articolo pubblicato su www.terranullius.it

giovedì 2 febbraio 2012

Giordano Bruno e il buco in mezzo alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma


GIORDANO BRUNO E IL BUCO IN MEZZO ALLA GALLERIA NAZIONALE D'ARTE MODERNA DI ROMA



Fra le più belle parole avute in possesso della nostra lingua per evocare l’anima certamente spicca “forma”. L’anima è ciò che dà la forma: è la forma. È nella forma delle cose che troviamo la loro anima, il loro senso e destino. Un tempo, quando sapevamo usare questa parola, era più facile, non a caso, guardare in faccia la realtà. O, quanto meno, guardare la faccia delle cose era preferito ad essere guardati su facebook. L’immaginale è scaduto a immaginario, questo si sa. Eppure per sapere chi siamo, ancora oggi ci è d’obbligo usare gli occhi per contemplare le forme.
Non ultimo, certo, le forme per eccellenza, quelle che da sempre l’uomo crea allo scopo di rivelare la nostra anima: quelle dell’arte, insomma. Mi viene in mente, solo a titolo d’esempio, l’incremento di visite museali registrato in Ungheria subito dopo il crollo del blocco sovietico. I popoli, specie nella loro decadenza o nelle grandi catastrofi, vanno a cercarsi nei loro monumenti e nelle loro pinacoteche. E quando vogliamo conoscere un paese straniero, lo andiamo a stanare nelle sue collezioni museali più importanti.
Così, se volessimo veramente vedere in faccia cos’è l’Italia; l’Italia dopo venti anni di Trimalcione al potere, catechizzata con successo dagli astrologi e buffoni di corte alla metafisica priapea, bene, dovremmo puntare il dito sul suo cuore simbolico, la Roma piena di tesori d’arte, e poi di nuovo al centro, verso Villa Borghese, sulla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, una delle collezioni di arte moderna più belle d’Europa. Una collezione che è la goduria grassa: dai macchiaioli agli impressionisti, dai simbolisti ai dadaisti, e i realisti, e i paesaggisti, e la scuola romana e via fino alla soglie del contemporaneo. Utopie e fatiche quotidiane. I sogni che hanno fatto la nostra realtà. Da ragazzi, quelli della mia età, qui hanno trovato un tempio, vi assicuro, dove vi prendevate la possibilità miracolosa di perdervi per quelle grandi sale che puzzavano di religione, piene di ombre e luci, con gli occhi che vi saltavano fuori dalle orbite e il cuore che vi si cuoceva lento a bagnomaria.
Potevate guardare in faccia tutto questo, e dirvi: questa è l’Italia, il paese dei miracoli, del Rinascimento e del Risorgimento. Questo è nel suo fondo. Questa la sua anima, e quindi il suo destino.
Oggi , invece, possiamo al massimo dire: questo dovrebbe essere il suo destino. Perché certo non lo è.
E va bene: l’anima, tanto è più grande, tanto più viene attratta dal piccolo e dal meschino. E qui entra Trimalcione con tutta la sua corte; e l’anima, come una Justine, deve conoscere i suoi supplizi. I supplizi che noi italiani ormai dovremmo conoscere bene, e che per un’intera generazione coincidono con l’impedimento alla realizzazione del proprio destino.
Una visita oggi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma può rendere edotti tutti sul carattere e la forma, e quindi la cocente realtà, di questo impedimento, quello di un’intera generazione ridotta a essere “bamboccia” e”sfigata”, costretta a vivere nel grottesco, e nel vuoto esistenziale. Andiamo con ordine: prima costretta ad essere “bamboccia” e “sfigata” e, quindi, di conseguenza, lasciata cadere nel vuoto.
È un disegno impeccabile, che possiamo ritrovare nel nuovo allestimento della Galleria.
E certo, perché qui, oggi, signori e signore, possiamo vedere con i nostri occhi in quale modo la nostra anima, così ricca, è stata presa e imbellettata. Il vecchio tempio, ora, sembra una vecchia signora travestita da soubrette stile “Drive In”, con un po’ di trucco stucchevole e un veloce e superficiale lifting. E possiamo immaginare le magagne strutturali sotto quel cerone pesante. Così possiamo riconoscerci oggi, al primo sguardo: ridicoli. Come la “nostra” Galleria, oggi siamo ridicoli.
Ma andiamo avanti.
Andiamo avanti, perché il ridicolo corrisponde a una pochezza. Una pochezza chiamata “percorsi didattici”, ossia quell’ordinato e disciplinato parlare facile facile come si farebbe ai bambini di tre anni, ai “bambocci”, e ai cretini e agli “sfigati”, a cui ci siamo ridotti. È comprensibile, l’anima e le sue immagini fanno paura. Le immagini sono le vere iconoclaste. Le immagini chiamano la barbarie dell’iconoclastia. Ed eccola qui questa barbarie, perpetrata eliminando capolavori troppo difficili, selezionando, riducendo a poco, e ordinando tutto in una spiegazione non richiesta e da poco.
È chiaro? Siamo ridicoli come una vecchia rifatta, perché (inevitabile polarità tra “senex” e “puer”, direbbe uno junghiano) siamo dei bambocci a cui dire cosa pensare di due quadri: due, e non più di due, per non impicciarvi la testa.
E adesso precipitiamo nel vuoto. Valiamo poco, e ce lo meritiamo.  Siamo in una sala centrale della Galleria. Al centro di  questa sala, per la precisione. Al centro del centro, giustamente. Qui troviamo, oggi, due grossi pannelli che sembrano due paraventi. Che lo sono, e che servono infatti a nascondere vergognosamente un vuoto. Quello lasciato dalla statua di Giordano Bruno. Qui c’era la statua di Giordano Bruno, quando questa Galleria era un tempio. Ora, che non lo è più, via il Nolano.
È qui sta il nostro vuoto. Il vuoto che è stato prodotto in ogni italiano elidendo il suo Rinascimento e il suo Risorgimento.  Il Rinascimento di Giordano Bruno, ultimo mago platonico, ultimo grande utopista cattolico, in fuga dalla modernità razionalista del protestantesimo a cui il papato si arrendeva mettendolo a morte. Ed il Risorgimento di Giordano Bruno, del suo libero pensiero e del suo coraggio contro il sopruso.
Qui sta il nostro vuoto: nell’impossibilità di vedere con gli occhi che il nostro paese non è il paese di Trimalcione, quello che ci ha reso ridicoli, infantili e vuoti, ma è il paese dell’utopia platonica, dell’arte elevata a filosofia e della filosofia elevata a vita, della migliore e più risplendente cattolicità, del libero pensiero e del coraggio e della vera libertà.
Immergetevi in questo ridicolo, lasciatevi offendere e dare dei cretini, e sprofondate in quel vuoto. Visitate la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Lasciatevi graffiare l’orgoglio. L’anima, oggi più che mai, ha bisogno di ribollire.

Pier Paolo Di Mino
artico pubblicato su http://www.terranullius.it

martedì 6 dicembre 2011

Benigni ricorda il Presidente Pertini



  Roberto Begnini ospite nel programma di Fiorello ilpiùgrandespettacolodopoilweekend ricorda Sandro Pertini e Andrea Pazienza: «Vorrei ricordare un padre della patria, Pertini. Era pacifista fin da ragazzo, ma allo scoppio della prima guerra mondiale andò volontario in guerra, perché vide che andavano in guerra i figli dei contadini, della povera gente. In quel momento, disse: 'Sentivo che dovevo dare più di loro è andai in prima linea'. Nei momenti di difficoltà», ha chiosato Benigni, «chi ha di più deve dare di più. Pertini disse anche che i giovani non hanno bisogno di discorsi, ma di esempi di onestà». E su Pazienza: «Non bisogna mai tornare indietro, nemmeno per prendere la rincorsa».

martedì 29 novembre 2011

Il Libretto rosso di Garibaldi su Le Monde Diplomatique / Il Manifesto

IL LIBRETTO ROSSO DI GARIBALDI  
a cura di Pier Paolo e Massimiliano Di Mino      

Castelvecchi (Purple Press), 2011, 9,90 euro 
di Francesco Bravi

   Lo sventolio di fazzoletti tricolore per i centocinquant’anni d’Italia ha senz’altro relegato in secondo piano la realtà del Risorgimento nazionale. Ha negato cioè la memoria di un tempo, quando le celebrazioni erano ancora di là da venire e l’unità ancora da realizzare, in cui esso è stato il campo di una lotta politica autentica e un’opportunità suscettibile di più esiti. Quale Risorgimento fare è stata insomma un’opzione politica reale e una scelta di divisione e non di unità. Il libretto rosso di Garibaldi, in tal senso, si muove contro la corrente – e qui sta la sua utilità –, perché fa emergere che la tradizionale lettura dell’opposizione tra Cavour e i repubblicani non basta a contenere la complessità del movimento di riscossa nazionale. E ciò proprio in quanto il campo democratico stesso fu attraversato da una grande distinzione: «Il mio repubblicanesimo differisce da quello di Mazzini, essendo io socialista», scrive l’Eroe dei due mondi. Ed è solo una delle tante professioni di fede contenute in questa agile raccolta di lettere, appelli, proclami, curata da Pier Paolo e Massimiliano Di Mino, che, attraverso le parole del nizzardo, diventa in fondo anche una piccola antologia della parola «maledetta» del nostro Risorgimento: socialismo. Garibaldi fu quel socialismo denegato. Se non si comprende questo non si può nemmeno comprendere la portata della sua sconfitta. La rappresentazione dell’eroe battuto dalla storia è popolare, ma non altrettanto la sostanza politica della sua disfatta. Se n’è voluta trarre più una lezione morale, quella del personaggio generoso tradito dai giochi di palazzo. Invece la sua figura e sorte hanno ben poco di emotivo. Il sentimentalismo, ci dicono questi scritti, è nel carattere dell’uomo ma non nel chiaro programma politico di emancipazione universale. In quanti sanno che la Comune di Parigi offrì il comando della sua Guardia nazionale a Garibaldi? In quanti come egli fu attivo in quella causa e in tutte le associazioni operaie del suo tempo? Ecco perché conta risalire alle fonti, come fa questo libretto.

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